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Ma, prima, andavo a casa di Roget per avere notizie di Nicolas o di mia madre.

Le lettere di mia madre traboccavano di gioia per la mia fortuna. Mi promise che sarebbe andata in Italia la prossima primavera, se ne avesse avuto la forza. Per ora voleva che le mandassi libri da Parigi, e giornali, e musica per il clavicembalo che le avevo regalato. Voleva sapere se ero davvero felice, se avevo realizzato i miei sogni. Diffidava un po’ della ricchezza. Ero stato così felice nel teatro di Renaud. Dovevo confidarmi con lei.

Era un tormento sentirmi leggere quelle parole. Era venuto il tempo di diventare un bugiardo, e non lo ero mai stato. Ma per mia madre ero pronto a farlo.

In quanto a Nicki, avrei dovuto capire che non si sarebbe accontentato dei doni e dei vaghi racconti, e avrebbe preteso di vedermi. Faceva un po’ paura a Roget.

Ma era inutile. Il procuratore non poteva dirgli altro se non ciò che io avevo spiegato. E non volevo vedere Nicki, tanto che non chiedevo neppure l’indirizzo della casa dove si era stabilito. Dissi al procuratore di assicurarsi che studiasse con il suo maestro italiano, e avesse tutto ciò che poteva desiderare.

Tuttavia venni a sapere che, contro la mia volontà, Nicolas non aveva abbandonato il teatro e suonava ancora nella Casa di Tespi di Renaud.

Mi irritai. Perché diavolo si sentiva in dovere di farlo? mi domandavo.

Perché amava quel posto, come l’avevo amato io: quella era la spiegazione. C’era bisogno che qualcuno me lo dicesse? Eravamo stati tutti anime gemelle in quel teatrino. Era meglio non pensare al momento in cui il sipario si alzava, e il pubblico incominciava ad applaudire e a gridare…

No. Feci mandare al teatro casse di vini e champagne, e fiori per Jeannette e Luchina, le ragazze con cui avevo litigato più spesso e che mi erano più care; e inviai altre borse d’oro a Renaud, perché saldasse i suoi debiti.

Ma via via che le notti passavano e i doni venivano recapitati, Renaud si sentiva sempre più in imbarazzo. Dopo due settimane, Roget mi riferì che Renaud aveva fatto una proposta. Voleva che comprassi la Casa di Tespi e lo tenessi come direttore, con un capitale sufficiente per mettere in scena spettacoli più grandiosi e splendidi. Con il mio denaro e la sua capacità, avremmo potuto fare in modo che del teatro parlasse tutta Parigi.

Non risposi subito. Impiegai più di un momento per comprendere che potevo diventare proprietario del teatro, come delle gemme nel mio scrigno, degli abiti che indossavo, delle case di bambola che avevo mandato alle mie nipotine. Dissi di no e uscii sbattendo la porta.

Poi tornai subito indietro.

«D’accordo, comprate il teatro», ordinai. «E dategli diecimila corone perché ne faccia ciò che vuole.» Era un patrimonio. E io non sapevo neppure perché l’avevo fatto.

Questa sofferenza passerà, pensavo. Deve passare. E devo acquisire un certo controllo sui miei pensieri, e rendermi conto che queste cose non possono influire su di me.

Dopotutto, dove passavo il tempo, adesso? Nei teatri più sontuosi di Parigi. Avevo i posti migliori per il balletto e l’opera, per i drammi di Moliere e di Racine. Stavo davanti alle luci della ribalta e guardavo i grandi attori e le grandi attrici. Avevo vestiti di tutti i colori dell’arcobaleno, gemme alle dita, parrucche all’ultima moda, scarpe con fìbbie di diamanti e tacchi d’oro.

E avevo tutta l’eternità per ubriacarmi della poesia che ascoltavo, del canto e del movimento delle braccia delle ballerine, della musica dell’organo nell’immensa caverna di Notre-Dame, e dei rintocchi che scandivano le ore e della neve che cadeva senza far rumore sui giardini deserti delle Tuileries.

E ogni notte diventavo meno guardingo mentre mi muovevo tra i mortali, mi sentivo più a mio agio in mezzo a loro.

Non passò neppure un mese prima che trovassi il coraggio di avventurarmi in un ballo affollatissimo al Palais Royal. Ero riscaldato dal sangue di una vittima, e mi unii subito alle danze. Non destai il minimo sospetto. Anzi, sembrava che le donne fossero attratte da me, e apprezzavo il contatto delle loro dita tiepide, la pressione morbida delle braccia e dei seni.

Dopo quella notte, presi a frequentare i boulevard affollati. Passavo in fretta davanti al teatro di Renaud, e andavo negli altri, a vedere gli spettacoli di marionette, i mimi e gli acrobati. Non rifuggivo più dai lampioni. Entravo nei locali e ordinavo un caffè per il gusto di sentirne il calore contro le dita, e quando mi andava parlavo con gli altri avventori.

A volte discutevo con loro sulla situazione della monarchia, e imparavo con impegno a giocare a biliardo e a carte; e mi sembrava che se avessi voluto avrei potuto andare alla Casa di Tespi, prendere un biglietto, salire in galleria e vedere cosa succedeva. Vedere Nicolas!

Ebbene, non lo facevo. Cosa sognavo di fare, per avvicinarmi a Nicki? Una cosa era ingannare gli estranei, uomini e donne che non mi avevano mai visto: ma che cosa avrebbe veduto Nicolas se mi avesse guardato negli occhi? Che cosa avrebbe veduto quando avesse guardato la mia pelle? E poi, mi dicevo, avevo troppo da fare.

Stavo imparando sempre di più sulla mia natura e sui miei poteri.

I miei capelli, per esempio, erano più chiari e tuttavia più folti, e non crescevano. Non crescevano neppure le mie unghie, che erano diventate più lustre. Tuttavia, se le limavo, si rigeneravano durante il giorno e riacquistavano la lunghezza che avevano avuto quando ero morto. E, sebbene la gente non potesse notare questi segreti osservandomi, scorgeva altre cose, lo splendore innaturale dei miei occhi che riflettevano troppi colori, e una fievole luminescenza della mia pelle.

Quando avevo fame, la luminescenza era molto spiccata. Una ragione di più per nutrirmi.

E stavo imparando che potevo ipnotizzare gli altri se li fissavo molto a lungo, e che la mia voce richiedeva un controllo molto rigoroso. Poteva capitarmi di parlare troppo sommessamente per l’udito dei mortali; e, se gridavo o ridevo troppo forte, potevo spezzare i loro timpani. Potevo ferire persino le mie stesse orecchie.

C’erano altre difficoltà: i miei movimenti. Tendevo a camminare, correre, danzare, sorridere e gesticolare come un essere umano; ma se ero sorpreso, turbato, addolorato, il mio corpo poteva piegarsi e contorcersi come quello di un acrobata.

Anche le mie espressioni facciali potevano essere incredibilmente esagerate. Una volta mi distrassi mentre passeggiavo nel Boulevard du Temple, pensando ovviamente a Nicolas; e sedetti sotto un albero, piegai le ginocchia e mi presi la testa tra le mani come l’elfo addolorato di una fiaba. Nel secolo diciottesimo i gentiluomini con la giacca di broccato e le calze di seta bianca non facevano cose del genere, almeno per la strada.

E un’altra volta, mentre contemplavo assorto il mutamento della luce sulle superfici, spiccai un balzo e sedetti a gambe incrociate sul tetto di una carrozza, con i gomiti sulle ginocchia.

La gente si sbalordiva. Si spaventava. Ma molto spesso, anche se si spaventava per il biancore della mia pelle, si limitava a distogliere gli occhi. Ben presto me ne resi conto; tutti s’illudevano che non ci fosse nulla di inspiegabile. Era la razionale mentalità settecentesca.

Dopotutto non c’erano stati casi di stregoneria da cent’anni: l’ultimo di cui avevo notizia era stato quello della Voisin, una fattucchiera bruciata viva al tempo del Re Sole.

E quella era Parigi. Perciò, se stritolavo accidentalmente un bicchiere di cristallo quando lo alzavo, o se sbattevo le porte nel muro quando le aprivo, la gente pensava che fossi ubriaco.

Ma ogni tanto rispondevo alle domande prima ancora che i mortali me le rivolgessero. Piombavo in stati stuporosi guardando le candele o i rami degli alberi, e restavo immobile così a lungo che qualcuno mi chiedeva se mi sentivo male.

E il mio problema peggiore erano le risate. A volte ero preso da crisi d’ilarità inarrestabili. Bastava una cosa qualunque per farmi incominciare. Bastava la follia assurda della mia posizione.