E questo può accadami abbastanza facilmente anche adesso. Nulla lo cambia: la sofferenza, le sventure, l’approfondita conoscenza della situazione in cui mi trovo. Se qualcosa mi appare divertente, comincio a ridere e non riesco a smettere.
Fra le altre cose, ciò rende furiosi gli altri vampiri. Ma sto correndo troppo.
Come probabilmente avrete notato, non ho ancora parlato di altri vampiri. Il fatto è che non riuscivo a trovarne.
Non riuscivo a trovare un solo essere sovrannaturale in tutta Parigi. Mortali alla mia sinistra, mortali alla mia destra… e ogni tanto, proprio quando mi ero convinto che non potesse più accadere, sentivo quella presenza vaga e sfuggente.
Non era mai più concreta di quanto lo fosse stata la prima notte nel camposanto del villaggio. E invariabilmente la ritrovavo nelle vicinanze di un cimitero parigino.
Ogni volta mi fermavo, mi voltavo, e cercavo di individuarla. Ma era inutile; la presenza spariva prima. Non riuscivo mai a trovarla da solo, e il lezzo dei cimiteri della città era così rivoltante che io non volevo e non potevo entrarvi.
Era una reazione che cominciava ad apparire qualcosa di più della schizzinosità e dei ricordi della mia segreta nei sotterranei della torre. La ripugnanza ispirata dalla vista e dall’odore della morte sembrava far parte della mia natura.
Non potevo assistere alle esecuzioni più di quand’ero un ragazzo tremante arrivato dall’Alvernia, e alla vista dei cadaveri mi coprivo la faccia. La morte mi faceva inorridire, a meno che non ne fossi io la causa! E dovevo allontanarmi quasi immediatamente dalle mie vittime defunte.
Ma torniamo alla presenza. Cominciai a chiedermi se non era un’altra specie di entità, qualcosa che non poteva comunicare con me. D’altra parte, avevo la netta sensazione che quella presenza mi spiasse, e forse si rivelasse a me di proposito.
In ogni caso, non vedevo altri vampiri a Parigi. Cominciavo a domandarmi se poteva davvero esistere più d’uno di noi in un dato momento. Forse Magnus aveva annientato il vampiro al quale aveva rubato il sangue. Forse era stato inevitabile che perisse dopo avermi trasmesso i suoi poteri. E anch’io sarei morto, se avessi fatto di un altro individuo un vampiro.
Ma no, non aveva senso. Magnus aveva continuato a possedere una grande forza anche dopo avermi dato il suo sangue. E aveva avvinto in catene la sua vittima quando le aveva sottratto i poteri.
Un mistero immenso, esasperante. Ma per il momento l’ignoranza era benedetta. E stavo scoprendo tante cose anche senza l’aiuto di Magnus. Forse era ciò che Magnus aveva voluto. Forse anche lui aveva imparato nello stesso modo, secoli prima.
Ricordavo le sue parole: nella camera segreta avrei trovato tutto ciò che mi era necessario per prosperare.
Le ore volavano mentre vagavo per la città. E lasciavo la compagnia degli esseri umani solo per nascondermi nella torre, durante il giorno.
Tuttavia incominciavo a interrogarmi. «Se puoi ballare, e giocare a biliardo e parlare con loro, perché non puoi dimorare in mezzo a loro come facevi quando eri vivo? Perché non puoi passare per un mortale e inserirti di nuovo nel tessuto della vita dove c’è… che cosa? Dillo!»
Era quasi primavera. Le notti diventavano più tiepide e la Casa di Tespi stava per mettere in scena un nuovo dramma, con nuovi numeri acrobatici tra un atto e l’altro. E gli alberi erano di nuovo in fiore, e in ogni istante di veglia pensavo a Nicki.
Una sera di marzo, mentre Roget mi leggeva una lettera di mia madre, mi accorsi che sapevo leggere come lui. Avevo imparato a leggere da mille fonti, senza neppure impegnarmi. Portai a casa la lettera.
Persino la camera interna non era più molto fredda. E sedetti accanto alla finestra e lessi per la prima volta in privato le parole di mia madre. Mi sembrava di sentire la sua voce che mi parlava:
«Nicolas mi ha scritto che hai acquistato il teatro di Renaud. Dunque ora sei il proprietario del teatrino dei boulevard dov’eri tanto felice? Ma possiedi ancora quella felicità? Quando mi risponderai?»
Piegai la lettera e la misi in tasca. Mi salivano agli occhi lacrime di sangue. Perché mia madre doveva comprendere tante cose e tuttavia doveva comprendere così poco?
11.
Il vento non era più pungente. Ritornavano tutti gli odori della I città. I mercati erano pieni di fiori. Mi precipitai a casa di Roget senza pensare a ciò che facevo e gli chiesi di dirmi dove abitava Nicolas.
Mi sarei accontentato di vederlo, assicurarmi che fosse in buona salute e constatare che la casa fosse abbastanza decorosa.
Era sull’Ile St.-Louis ed era imponente come io avevo voluto; ma le imposte erano tutte chiuse.
Rimasi a guardarla a lungo mentre le carrozze passavano sul ponte vicino. E compresi che dovevo vedere Nicki.
Cominciai ad arrampicarmi sul muro come avevo fatto nel villaggio: era di una facilità sorprendente. Salii un piano dopo l’altro, molto più in alto di quanto avessi osato fare in passato, e corsi sul tetto e scesi nell’interno del cortile per cercare l’appartamento di Nicki.
Passai davanti a diverse finestre aperte prima di arrivare a quella giusta. E Nicolas era là, nella luce delle candele accese sulla tavola, e con lui c’erano Jeannette e Luchina, e consumavano insieme il pasto notturno che avevamo avuto l’abitudine di fare insieme dopo la chiusura del teatro.
Appena lo vidi mi scostai dalla finestra e chiusi gli occhi. Sarei caduto, se la mia mano destra non fosse rimasta aggrappata al muro come animata da volontà propria. Avevo visto la stanza per un solo istante ma ogni dettaglio si era impresso nella mia mente.
Portava un vecchio abito di velluto verde che aveva indossato con disinvoltura per le viuzze tortuose del nostro villaggio. Ma intorno a lui c’erano i segni della ricchezza che gli avevo mandato, libri rilegati in pelle sugli scaffali, la scrivania intarsiata e il quadro ovale, e il violino italiano che luccicava sopra il pianoforte nuovo.
Aveva al dito un anello che gli avevo inviato, e i capelli bruni erano trattenuti da un nastro di seta nera. Sedeva a tavola con aria assorta, e non mangiava il cibo che gli stava davanti nel piatto di porcellana pregiata.
Aprii gli occhi e tornai a guardarlo. Tutti i suoi doni naturali erano presenti in un fulgore di luce: le membra delicate ma forti, i grandi, seri occhi castani, e la bocca che nonostante le ironie e i sarcasmi era infantile e attirava i baci.
Notai in lui una fragilità che non avevo mai percepito o compreso. Tuttavia appariva molto intelligente, il mio Nicki, pieno di pensieri aggrovigliati e irriducibili, mentre ascoltava Jeannette che parlava rapidamente.
«Lestat si è sposato», disse lei mentre Luchina annuiva. «La moglie è ricca e lui non può farle sapere che era un semplice attore. Ecco tutto.»
«Secondo me dobbiamo lasciarlo in pace», interloquì Luchina. «Ha salvato il teatro dalla chiusura e ci copre di doni…,»
«Non lo credo», disse amaramente Nicolas. «Non posso credere che si vergogni di noi.» Nella sua voce c’era una rabbia repressa, un’angoscia cupa. «E perché se n’è andato così? L’ho sentito chiamarmi. La finestra era sfondata! Vi assicuro che ero semisveglio e che ho sentito la sua voce…»
Tra loro scese un silenzio impacciato. Le donne non credevano alla versione di Nicki, che io fossi svanito dalla soffitta; e il fatto che la ripetesse serviva solo a isolarlo e ad amareggiarlo ancora di più. Lo sentivo da tutti i loro pensieri.
«Voi non conoscete veramente Lestat», disse, quasi imbronciandosi e tornando alla conversazione che le altre mortali gli permettevano. «Lestat sputerebbe in faccia a chiunque si vergognasse di noi! Mi manda somme di denaro. Cosa devo farmene? Si diverte con noi!»