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Era una ragione di più perché io portassi il libro e il complesso del Vampiro Lestat alla fama, e il più rapidamente possibile. Dovevo trovare Louis. Dovevo parlargli. Anzi, dopo aver letto la sua versione dei fatti, smaniavo per lui, avevo nostalgia delle sue illusioni romantiche e persino della sua disonestà. Avevo nostalgia della sua malizia aristocratica, della sua presenza fisica e del suono ingannevolmente dolce della sua voce.

Naturalmente l’odiavo per le menzogne che aveva detto sul mio conto. Ma l’amore era molto più grande dell’odio. Aveva diviso con me gli anni tenebrosi e romantici del secolo decimonono, ed era stato il mio compagno come non lo era mai stato nessun altro immortale.

E smaniavo di scrivere la mia storia per lui: non già una risposta alla malizia del suo libro, ma il racconto di tutte le cose che avevo visto e imparato prima d’incontrarlo, la storia che prima non avevo potuto dirgli.

Ormai, le vecchie leggi non contavano più nulla neppure per me.

Volevo infrangerle tutte. E volevo che il mio complesso e il mio libro attirassero non soltanto Louis ma tutti gli altri demoni che avevo conosciuto e amato. Volevo ritrovare i perduti, destare coloro che dormivano come io avevo dormito.

Nuovi e vecchi, belli e perversi e dementi e senza cuore… sarebbero venuti tutti a me dopo aver visto quei videoclip e aver ascoltato quei dischi, dopo aver visto il libro nelle vetrine, e avrebbero saputo esattamente dove trovarmi. Allora sarei stato la superstar del rock Lestat. Appena arrivato a San Francisco per il primo concerto. Mi avrebbero trovato lì.

Ma c’era un’altra ragione per quell’avventura… una ragione ancor più pericolosa e deliziosa e folle.

E sapevo che Louis avrebbe capito. Doveva essere alla base della sua intervista, delle sue confessioni. Volevo che i mortali sapessero di noi. Volevo proclamarlo al mondo come l’avevo detto ad Alex e Larry e Tough Cookie, e alla mia dolce avvocatessa Christine.

E non avrebbe avuto importanza se non mi avessero creduto. Non avrebbe avuto importanza che la giudicassero una finzione artistica. Il fatto era che, dopo essermi nascosto per due secoli, sarei apparso visibile ai mortali! Avevo detto il mio nome a voce alta, avevo rivelato la mia natura. Ero là!

Ma mi stavo spingendo più lontano di Louis. La sua storia, nonostante le stranezze, era passata per un’opera di fantasia. Nel mondo dei mortali, era innocua come i tableaux del vecchio Teatro dei Vampiri a Parigi, dove i demoni avevano finto di essere attori che fingevano di essere demoni su un palcoscenico remoto illuminato da lampade a gas.

Sarei apparso sotto le luci solari davanti alle telecamere, avrei toccato con le dita gelide mille mani protese e calde. Avrei spaventato tutti a morte se fosse stato possibile, e se fosse stato possibile li avrei affascinati e condotti alla verità.

E supponiamo… supponiamo che quando i cadaveri avessero incominciato a comparire in gran numero, quando i più vicini a me avessero cominciato a prendere sul serio i sospetti inevitabili… supponiamo che l’arte cessasse di essere arte e diventasse realtà!

Voglio dire, se avessero creduto davvero, se avessero compreso che esisteva ancora il demone del Vecchio Mondo, il vampiro… oh, allora avremmo avuto una guerra grandiosa, splendida!

Ci avrebbero conosciuto e ci avrebbero dato la caccia, e ci avrebbero combattuto in quella scintillante giungla urbana come nessun mostro mitico è mai stato finora combattuto dall’uomo.

Come potevo fare a meno di amare l’idea? Come poteva non valere la pena di rischiare il pericolo più grande, la sconfitta più tremenda? Persino nell’attimo dell’annientamento, sarei stato vivo come non lo ero mai stato.

Ma per dire la verità, non pensavo che si sarebbe mai arrivati a tanto… voglio dire, al fatto che i mortali credessero in noi. I mortali non mi hanno mai fatto paura.

Era l’altra guerra che sarebbe scoppiata, la guerra cui avremmo partecipato tutti insieme, o in cui tutti sarebbero venuti a combattere contro di me.

Era quella la vera ragion d’essere del complesso del Vampiro Lestat. Era quello il gioco che intendevo giocare.

Ma l’altra, meravigliosa possibilità di rivelazione e del disastro… ecco, aggiungeva a tutto un sapore molto stuzzicante!

Dalla tetraggine di Canal Street, risalii la scala del mio appartamento nel vecchio albergo del quartiere francese. Era tranquillo, e mi piaceva così, con il Vieux Carré sotto le finestre e le viuzze con le case spagnole che conoscevo da tanto tempo.

Accesi il televisore gigantesco e misi la cassetta del bel film di Visconti, Morte a Venezia. A un certo punto un attore diceva che il male era necessario. Nutrimento per il genio.

Io non lo credevo. Ma avrei voluto che fosse vero. Allora avrei potuto essere semplicemente Lestat il mostro, no? E sapevo fare il mostro così bene! Ah, sì…

Misi un dischetto nuovo nel word processor e incominciai a scrivere la storia della mia vita.

EDUCAZIONE E PRIME AVVENTURE DEL VAMPIRO LESTAT

PARTE I

L’ASCESA DI LELIO

1.

Nell’inverno del mio ventunesimo anno uscii solo, a cavallo, per sterminare un branco di lupi.

Avvenne nelle terre di mio padre in Alvernia, Francia, negli ultimi decenni precedenti la rivoluzione francese.

Era l’inverno peggiore che ricordassi; i lupi rubavano le pecore ai nostri contadini e la notte si aggiravano persino per le vie del villaggio.

Per me erano anni amari. Mio padre era il marchese, e io ero il settimo figlio maschio, il più giovane dei tre sopravvissuti fino all’età adulta. Non avevo diritto al titolo e alla terra e non avevo prospettive. Anche in una famiglia ricca quella sarebbe stata la sorte di un figlio cadetto; ma la nostra ricchezza era stata consumata da molto tempo. Il mio fratello maggiore Augustin, che era il legittimo erede di quanto avevamo, aveva speso la modesta dote della moglie dopo il matrimonio.

Il castello di mio padre, la tenuta e il vicino villaggio erano il mio universo. Ed ero nato irrequieto… ero il sognatore, l’arrabbiato, il contestatore. Non mi andava di stare seduto accanto al fuoco a parlare delle guerre passate e dei tempi del Re Sole. Per me la storia non aveva significato.

Ma in quel mondo all’antica ero diventato il cacciatore. Portavo fagiani e altra selvaggina, e le trote dei ruscelli di montagna, tutto ciò che riuscivo a trovare, per sfamare la famiglia. Ormai era diventata la mia vita, una vita che non spartivo con nessun altro… Ed era un bene che l’avessi accettata perché quelli erano anni in cui avremmo potuto effettivamente morire di fame.

Naturalmente era un’occupazione nobile andare a caccia nelle terre avite, e noi soli ne avevamo il diritto. Neppure il più ricco dei borghesi poteva imbracciare il fucile nelle mie foreste. Comunque, non aveva bisogno del fucile. Lui aveva il denaro.

Per due volte, nella mia esistenza, avevo cercato di sottraimi a quella vita, ma ero stato riportato indietro con le ali spezzate. Ne parlerò in seguito.

Ora sto pensando alla neve che copriva le montagne e ai lupi che spaventavano i paesani e rubavano le mie pecore. E sto pensando al detto così comune nella Francia di quei tempi: chi viveva in Alvernia, non poteva essere più lontano da Parigi.

Poiché ero un signore, anzi l’unico signore che potesse andare a cavallo e sparare con il fucile, era naturale che i paesani venissero da me a lamentarsi dei lupi e a chiedermi di dargli la caccia. Era mio dovere.

Non avevo paura dei lupi. In tutta la mia vita non avevo mai sentito di un lupo che avesse attaccato un uomo. Li avrei avvelenati, se avessi potuto; ma la carne era troppo scarsa per usarla come esca.