Perciò in una fredda mattina di gennaio, molto presto, mi armai per uccidere i lupi a uno a uno. Avevo tre pistole a pietra focaia, e un eccellente fucile dello stesso tipo. Li portai con me assieme ai miei moschetti e alla spada di mio padre. Ma, prima di lasciare il castello, aggiunsi al mio piccolo arsenale un paio d’armi antiche che non avevo mai degnato della mia attenzione.
Il nostro castello era pieno di vecchie armature. I miei antenati avevano combattuto in una quantità di nobili guerre fin dai tempi della Crociata di san Luigi. E alle pareti, sopra quella ferraglia cigolante, c’erano lance, mazze, mazzafrusti e mazze ferrate.
Era un mazza molto grande, una specie di bastone chiodato, quella che portai con me quel mattino, e presi anche un mazzafrusto, una sfera di ferro fissata a una catena, che poteva essere avventata con forza immensa contro l’assalitore.
Bisogna tener conto che era il secolo decimottavo, quando i parigini in parrucca bianca portavano scarpe di raso con i tacchi alti, fiutavano tabacco e si asciugavano il naso con i fazzoletti ricamati.
E io stavo andando a caccia con stivali di pelle greggia e giubba di daino, con queste armi antiche legate alla sella, e, accanto a me, i miei due mastini più grossi con i collari chiodati.
Era la mia vita, ed era come se vivessi nel Medioevo. Conoscevo abbastanza i viaggiatori eleganti sui percorsi postali per rendermene conto acutamente. I nobili della capitale chiamavano «acchiappalepri» i signorotti di campagna. Naturalmente, noi li disprezzavamo e li chiamavamo lacchè dei reali. Il nostro castello esisteva da mille anni, e neppure il grande cardinale Richelieu, nella sua guerra contro di noi, era riuscito ad abbatterne le antiche torri. Ma, come ho già detto, non prestavo molta attenzione alla storia.
Ero infelice e inferocito, mentre salivo sulla montagna. Aspiravo a una bella battaglia con i lupi. Secondo i paesani, ce n’era un branco di cinque, e io avevo le mie armi da fuoco e due cani con mascelle abbastanza forti da spezzare la spina dorsale d’un lupo.
Per un’ora continuai a salire. Poi arrivai in una valletta che conoscevo molto bene e che nessuna nevicata poteva mascherare. E quando mi avviai attraverso l’ampio campo deserto verso il bosco spoglio, sentii il primo ululato.
Dopo pochi attimi ne sentii un altro e un altro ancora. Il coro era così armonizzato che non avrei saputo dire quanti fossero i componenti del branco; capivo solo che mi avevano visto e si scambiavano il segnale di riunirsi… esattamente ciò che avevo sperato.
Non credo di aver provato la minima paura. Eppure percepivo qualcosa che mi faceva accapponare la pelle delle braccia. La campagna immensa sembrava vuota. Preparai le armi. Ordinai ai cani di smettere di ringhiare e di seguirmi, ed ebbi la vaga idea che avrei fatto bene a lasciare il prato scoperto e addentrarmi in fretta nel bosco. I cani mi diedero l’allarme abbaiando. Girai la testa e vidi i lupi, molto più indietro, che correvano sulla neve nella mia direzione. Erano tre giganteschi lupi grigi, e avanzavano in linea.
Corsi verso la foresta.
Sembrava che ci sarei riuscito facilmente prima che mi raggiungessero, ma i lupi sono animali molto astuti, e mentre galoppavo verso gli alberi vidi il resto del branco, cinque esemplari adulti, che usciva davanti a me sulla sinistra. Era un’imboscata: non sarei arrivato in tempo alla foresta. E il branco era formato da otto lupi, non da cinque come avevano detto i paesani.
Persino allora non ebbi paura. Non considerai il fatto ovvio che erano affamati, altrimenti non si sarebbero avvicinati al villaggio. Avevano dimenticato l’abitudine di stare lontani dagli uomini.
Mi preparai alla battaglia. Infilai il mazzafrusto nella cintura e presi la mira con il fucile. Abbattei un grosso maschio a una certa distanza da me ed ebbi il tempo di ricaricare mentre i miei cani e il branco si scontravano.
I lupi non riuscivano ad addentare i miei cani al collo perché portavano i collari chiodati. E nella prima schermaglia i cani abbatterono uno dei lupi. Io sparai e ne stesi un secondo.
Ma il branco aveva circondato i cani. Mentre continuavo a sparare, ricaricando più in fretta che potevo e cercando di prendere la mira con cura, vidi il mastino più piccolo cadere con le zampe posteriori spezzate. Il sangue scorse sulla neve: il secondo cane si scostò dai lupi che cercavano di divorare il suo compagno morente: in meno di due minuti le belve sventrarono anche il secondo.
I mastini erano animali poderosi, come ho detto. Li avevo allevati e addestrati personalmente. Ognuno pesava più di duecento libbre. Andavo sempre a caccia con loro e, sebbene adesso li chiami semplicemente «cani», allora li conoscevo solo per nome; e quando li vidi morire mi resi conto per la prima volta di ciò che poteva accadere.
Ma tutto questo era successo in pochi minuti.
Quattro lupi erano morti, un altro era storpiato irrimediabilmente. Ne restavano tre. Uno aveva interrotto il banchetto selvaggio per fissarmi con gli occhi obliqui.
Sparai con il fucile, lo mancai, sparai con il moschetto e la mia cavalla s’impennò mentre il lupo sfrecciava verso di me.
Come tirati da fili, gli altri lupi si voltarono e abbandonarono le vittime appena uccise. Strattonai le redini e lasciai che la cavalla corresse verso il riparo della foresta.
Non mi voltai neppure quando sentii ringhiare e sbattere le fauci, ma poi sentii le zanne scalfirmi la caviglia. Presi l’altro moschetto, mi girai verso sinistra e sparai. Mi sembrò che il lupo cadesse sulle zampe posteriori, ma lo persi di vista subito, e la mia cavalla s’impennò di nuovo. Per poco non finii a terra. Sentii le zampe posteriori della cavalla cedere sotto di me.
Eravamo quasi arrivati alla foresta, e balzai via prima che cadesse. Avevo ancora una pistola carica. Mi voltai, la strinsi con entrambe le mani, mirai al lupo che correva verso di me e gli feci esplodere il cranio.
In realtà i lupi rimasti erano ancora due. La cavalla lanciò un nitrito sconvolgente che divenne uno strido acutissimo, il suono più tremendo che avessi mai udito da un essere vivente. I due lupi le erano piombati addosso.
Corsi sulla neve, sentii sotto di me la consistenza del terreno roccioso, e arrivai agli alberi. Se avessi potuto ricaricare, li avrei uccisi da lassù. Ma non c’era un solo albero con i rami abbastanza bassi su cui aggrapparmi.
Spiccai un balzo cercando di afferrarmi; i miei piedi scivolarono sulla corteccia gelata e caddi mentre i lupi si avvicinavano. Non avevo il tempo di caricare l’unica pistola che mi era rimasta. Dovevo usare il mazzafrusto e la spada, perché avevo perso la mazza molto più indietro.
Credo che, mentre mi rialzavo, sapessi che probabilmente sarei morto. Ma non pensai neppure per un momento di arrendermi. Ero furioso, fuori di me. Quasi ringhiavo mentre fronteggiavo i due lupi e guardavo negli occhi il più vicino.
Mi piantai a gambe larghe per stare più saldo. Strinsi il mazzafrusto nella sinistra e sguainai la spada. I lupi si fermarono. Il primo mi fissò, poi piegò la testa e si spostò di qualche passo a lato. L’altro restò come in attesa d’un segnale invisibile. Il primo mi guardò di nuovo con quella strana espressione calma, e si avventò.
Cominciai a mulinare in cerchio il mazzafrusto. Sentivo il mio respiro ringhiante; piegavo le ginocchia per sporgermi in avanti. Mirai alle fauci dell’animale con tutte le mie forze, ma lo scalfii appena.
Il lupo schizzò via, il secondo mi corse intorno in cerchio; avanzava saltellando verso di me e poi arretrava. Entrambi piombarono poi abbastanza vicini perché mi mettessi di nuovo a roteare il mazzafrusto e menar fendenti con la spada, poi corsero via di nuovo.
Non so per quanto tempo continuassero; ma capivo la loro strategia. Volevano sfinirmi e avevano la forza per farlo. Per loro era diventato un gioco.