Quando venivo corretto, e non accadeva spesso, ero felice perché per la prima volta in vita mia qualcuno cercava di vedere in me una persona buona e capace di imparare.
Dopo meno di un mese dichiarai la mia vocazione. Volevo entrare nell’ordine. Volevo passare la vita in quel chiostro immacolato, nella biblioteca a scrivere sulla pergamena e a imparare a leggere i libri antichi. Volevo rimanere rinchiuso per sempre assieme a coloro che mi credevano capace di essere buono, se volevo.
Ero benvoluto. E questo era molto insolito. Lì dentro non causavo infelicità o collera a nessuno.
Il padre superiore scrisse subito per chiedere il permesso di mio padre. E francamente io credevo che mio padre sarebbe stato ben contento di liberarsi di me.
Ma tre giorni dopo vennero i miei fratelli per riportarmi a casa. Piansi e implorai per restare, ma il padre superiore non poté far nulla.
Appena arrivammo al castello, i miei fratelli mi portarono via i libri e mi rinchiusero. Non capivo perché fossero tanto furiosi. Sembravano convinti che mi fossi comportato da sciocco. Non riuscivo a smettere di piangere. Camminavo avanti e indietro, prendevo a pugni quel che mi capitava sottomano e sferravo calci alla porta.
Poi mio fratello Augustin incominciò a venire a parlarmi. Dapprima girò intorno all’argomento; ma alla fine avevo capito chiaramente che un membro di una grande famiglia francese non poteva diventare un povero frate insegnante. Com’era possibile che avessi frainteso tutto? Mi avevano mandato al convento perché imparassi a leggere e a scrivere. Perché dovevo sempre spingermi all’estremo? Perché mi comportavo abitualmente come un pazzo?
In quanto all’idea di diventare un prete con qualche prospettiva interessante nell’ambito della chiesa, ebbene, ero il figlio minore, no? Dovevo pensare ai miei doveri verso i nipoti.
In parole chiare, ecco che cosa significava: Non abbiamo denaro per lanciarti in una carriera ecclesiastica, per farti diventare vescovo o cardinale come sarebbe doveroso per il nostro rango; quindi dovrai vivere qui il resto della tua vita, da illetterato e da straccione. Vieni nella sala grande e gioca a scacchi con tuo padre.
Quando capii, piansi a tavola e mormorai parole che nessuno comprese affermando che la nostra casa era il caos, e per punizione fui mandato in camera mia.
Mia madre venne da me. «Tu non sai cos’è il caos. Perché usi queste parole?»
«Io lo so», dissi. Cominciai a descriverle la sporcizia e la decadenza che regnavano dovunque, e a spiegarle che invece il convento era lindo e ordinato; un posto dove, impegnandosi, si poteva realizzare qualcosa.
Non mi contraddisse. E, sebbene fossi giovanissimo, capivo che era toccata dall’eccezionalità di ciò che le dicevo.
L’indomani mattina mi portò con sé a fare un viaggio.
Dopo mezza giornata arrivammo all’imponente chàteau di un nobile nostro vicino; e mia madre e il nobile mi portarono al canile. Mia madre mi disse di scegliere quelli che preferivo in una cucciolata di mastini.
Non avevo mai visto nulla di tenero e amabile come quei cuccioli. E i cani adulti che ci osservavano sembravano leoni insonnoliti. Magnifici.
Ero quasi troppo emozionato per compiere la scelta. Portai via il maschio e la femmina che mi consigliò il nobiluomo, e durante il viaggio di ritorno li tenni sulle ginocchia, dentro una cesta.
Dopo meno di un mese, mia madre mi comprò il primo moschetto a pietra focaia e il mio primo cavallo.
Non mi disse mai perché l’aveva fatto. Ma io compresi, a mio modo, ciò che mi aveva dato. Allevai i cani, li addestrai, e li usai per creare un grande canile.
Con quei cani diventai un vero cacciatore; e a sedici anni vivevo quasi sempre all’aperto.
Ma a casa ero una seccatura, più che mai. Nessuno voleva ascoltarmi quando parlavo di rimettere in ordine le vigne e coltivare i campi trascurati e fare in modo che i fittavoli smettessero di derubarci.
Non potevo realizzare nulla. Il flusso silenzioso della vita immutabile mi appariva letale.
Andavo in chiesa tutti i giorni festivi, tanto per rompere la monotonia della mia esistenza. E quando c’erano le fiere ero sempre presente, ansioso di assistere ai piccoli spettacoli che non avevo modo di vedere in nessun’altra occasione… qualunque cosa pur di spezzare l’andazzo abituale.
Forse erano sempre gli stessi giocolieri e mimi e acrobati degli anni passati, ma non aveva importanza. Era qualcosa di più del cambiamento delle stagioni e delle chiacchiere oziose sulle glorie di un tempo.
Ma una volta, quando avevo sedici anni, venne una troupe di comici italiani con un carro sul quale montarono il palcoscenico più elaborato che avessi mai visto. Recitarono una vecchia commedia italiana con Pantalone e Pulcinella e i due innamorati Lelio e Isabella, e l’anziano dottore e tutti i vecchi trucchi.
Io assistevo, rapito. Non avevo mai visto nulla di simile: l’ingegnosità, la sveltezza, la vitalità. Ero entusiasta persino quando le parole venivano pronunciate tanto in fretta che non riuscivo a seguirle.
Allorché i comici ebbero finito ed ebbero fatto la colletta tra la folla, mi trattenni alla locanda e offrii loro il vino che non avrei potuto permettermi, solo per parlare.
Provavo un amore inesprimibile per quegli uomini e per quelle donne. Mi spiegarono che ogni attore aveva un suo ruolo per la vita, e che non imparavano a memoria le parole ma improvvisavano tutto sul palcoscenico. Conoscevi il tuo nome e il tuo personaggio, lo comprendevi e lo facevi parlare e agire come ritenevi che dovesse fare. Quella era la trovata geniale.
Si chiamava commedia dell’arte.
Ero incantato. M’innamorai della ragazza che impersonava Isabella.
Salii sul carro con i comici ed esaminai i costumi e gli scenari dipinti; e, quando tornammo a bere nella taverna, mi lasciarono interpretare Lelio, il giovane innamorato d’Isabella, e batterono le mani e dissero che avevo il dono del teatro. Sapevo improvvisare come loro.
All’inizio pensavo che lo dicessero per adularmi: comunque non aveva importanza, fosse adulazione o no.
L’indomani mattina, quando il carro lasciò il villaggio, io ero a bordo. Ero nascosto con poche monete che ero riuscito a risparmiare e tutti i miei indumenti legati in una coperta. Intendevo diventare attore.
Nella vecchia commedia italiana Lelio deve essere molto bello; è l’amoroso, come ho spiegato, e non porta la maschera. Se ha belle maniere, dignità, portamento aristocratico, tanto meglio, perché fanno parte del ruolo.
Bene, i comici pensavano che avessi tutte queste doti. Mi prepararono subito per la prossima rappresentazione. E il giorno prima dello spettacolo andai in giro con gli altri per la cittadina, molto più grande e interessante del mio villaggio, a fare pubblicità alla commedia.
Mi sentivo in paradiso. Ma il viaggio e i preparativi e il cameratismo degli altri attori non mi diedero la stessa estasi che conobbi quando, finalmente, mi presentai sul piccolo palcoscenico.
Mi lanciai a corteggiare Isabella. Mi scoprii una capacità di inventare versi e frasi spiritose che non sapevo di possedere. Sentivo la mia voce echeggiare tra i muri intorno a me. Sentivo le risate degli spettatori. Dovettero quasi trascinarmi via dal palcoscenico per fermarmi: ma tutti compresero che era stato un grande trionfo.
Quella notte, l’attrice che faceva la parte dell’amorosa mi concesse un suo riconoscimento molto intimo. Mi addormentai fra le sue braccia; l’unica cosa che ricordo fu che mi disse che a Parigi avremmo recitato alla fiera di St.-Germain, e poi avremmo lasciato la compagnia e saremmo rimasti nella capitale a lavorare nel Boulevard du Temple fino a che non fossimo entrati nella Comédie-Francaise e avessimo incominciato a recitare davanti alla regina Maria Antonietta e al re Luigi. Quando mi svegliai l’indomani mattina, lei se n’era andata e se n’erano andati tutti i comici, ma c’erano i miei fratelli.