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Non seppi mai se i miei compagni erano stati corrotti o semplicemente intimiditi. È più probabile che fosse vera questa seconda versione. Fatto sta che mi portarono di nuovo a casa.

La mia famiglia, naturalmente, era inorridita di ciò che avevo fatto. Voler diventare frate a dodici anni è scusabile. Ma il teatro puzzava di diabolico. Persino il grande Molière non aveva avuto una sepoltura cristiana. E io ero scappato con una compagnia di vagabondi italiani, m’ero dipinto la faccia di bianco e avevo recitato con loro per denaro su una pubblica piazza.

Mi picchiarono, e quando imprecai contro tutti mi picchiarono ancora.

La punizione peggiore era vedere l’espressione di mia madre. Non le avevo neppure detto che intendevo partire. E l’avevo ferita; questo non era mai accaduto prima. Ma lei non ne parlò mai.

Quando venne da me mi ascoltò piangere. Vidi le lacrime nei suoi occhi. E mi posò la mano sulla spalla; per lei era un gesto eccezionale. Non le dissi cosa avevo provato in quei pochi giorni. Ma credo che lo sapesse. Avevo perduto qualcosa di magico. E ancora una volta sfidò mio padre. Pose fine alla recriminazione, alle botte e alle restrizioni.

Mi fece sedere a tavola accanto a lei. Mi parlava, teneva conversazioni che le erano innaturali; e continuò a farlo fino a che ebbe attenuato e disperso il rancore della famiglia.

Poi, come aveva fatto in passato, vendette un altro dei suoi gioielli e mi comprò lo splendido fucile da caccia che avevo portato con me per ucciderei lupi.

Era un’arma eccezionale e costosa; e nonostante la mia tristezza ero ansioso di provarla. E mia madre aggiunse un altro dono, un’agile cavalla baia forte e veloce. Ma erano cose da poco, in confronto alla consolazione che lei mi aveva dato.

Tuttavia l’amarezza che avevo dentro non si placò.

Non dimenticavo cosa avevo provato quando ero Lelio. Diventai un po’ più crudele a causa di ciò che era accaduto, e non andai mai più alla fiera del villaggio. Mi convinsi che non mi sarei mai allontanato di lì; e stranamente, via via che la disperazione diventava più profonda, io mi rendevo sempre più utile.

Ero il solo che ispirasse paura ai servitori e ai fittavoli… e avevo appena diciotto anni. Ero il solo che procurava il cibo. E, per qualche stranissima ragione, questo mi dava soddisfazione. Non sapevo perché, ma mi piaceva sedere a tavola e pensare che tutti mangiavano ciò che avevo procacciato io.

Quei momenti, dunque, mi avevano legato a mia madre. Quei momenti ci avevano dato un affetto reciproco ignorato e probabilmente ineguagliabile nelle vite di coloro che ci stavano intorno.

Adesso era venuta da me in quel momento strano quando, per ragioni che non capivo, non sopportavo la compagnia di un’altra persona.

Con gli occhi fissi sul fuoco, la vidi sedere sul materasso di paglia accanto a me.

Silenzio. Soltanto lo scoppiettare del fuoco e il respiro profondo dei cani addormentati.

Poi la guardai e trasalii.

Per tutto l’inverno era stata tormentata dalla tosse e adesso appariva sofferente; la sua bellezza, che per me era sempre stata importante, per la prima volta mi appariva vulnerabile.

Il viso era squadrato, gli zigomi perfetti, molto alti e distanti ma delicati. La linea della mascella era forte ma squisitamente femminile. Aveva gli occhi di un limpido azzurro-cobalto, frangiato da folte ciglia biondocenere.

Se c’era un difetto in lei, era forse che i suoi lineamenti erano troppo minuti, troppo felini, e la facevano sembrare una bambina. Gli occhi parevano diventare ancora più piccoli quando era in collera e, anche se la bocca era dolce, spesso appariva dura. Non si piegava verso il basso, non si storceva: era come una rosellina rosea. Ma le guance erano lisce, il viso magro, e quando assumeva un’aria molto seria la bocca, senza cambiare, diventava cattiva.

Adesso aveva il viso un po’ scavato. Ma per me era ancora bella. E lo era davvero. Mi piaceva guardarla. Aveva folti capelli biondi, e io li avevo ereditati da lei.

In realtà le somiglio, almeno superficialmente. Ma i miei lineamenti sono più grandi e più rozzi e la mia bocca è più mobile e a volte assume un’espressione molto dura. E si può notare il senso dell’humour, la mia capacità di un’ilarità quasi isterica che ho sempre posseduto per quanto fossi infelice. Mia madre non rideva spesso. Sapeva apparire profondamente fredda. Tuttavia aveva sempre una dolcezza infantile. Dunque, la guardai mentre sedeva sul mio letto, anzi la fissai, credo. E subito cominciò a parlarmi.

«So com’è», mi disse. «Tu li odii. Per ciò che hai dovuto sopportare e per ciò che non sanno. Non hanno abbastanza immaginazione per capire che cosa ti è accaduto sulla montagna.»

Provai una gioia gelida a quelle parole; e le rivolsi un ringraziamento silenzioso… aveva compreso perfettamente.

«Fu la stessa cosa la prima volta che partorii un figlio», disse lei. «Patii per dodici ore, prigioniera della sofferenza. Sapevo che l’unica liberazione possibile era il parto o la morte. Quando tutto finì, avevo tra le braccia tuo fratello Augustin; ma non volevo vicino a me nessun altro. E non perché li ritenessi colpevoli. Ma avevo sofferto tanto, per ore e ore, ed ero discesa all’inferno e ne ero uscita. Loro non avevano conosciuto l’inferno. E sentivo la quiete, il silenzio. In quell’atto comune e volgare del parto, avevo compreso il significato della solitudine assoluta.»

«Sì, è così», risposi. Ero un po’ scosso.

Non reagì. Mi sarei sorpreso se l’avesse fatto. Aveva detto ciò che era venuta a dire e non intendeva conversare. Ma mi posò la mano sulla fronte in un gesto molto inconsueto, e quando osservò che dopo tutto quel tempo avevo ancora addosso gli indumenti insanguinati della caccia, me ne accorsi anch’io, e compresi che il mio comportamento era innaturale.

Per un po’ mia madre rimase in silenzio.

E mentre guardavo il fuoco, avrei voluto dirle tante cose, in particolare che le volevo molto bene.

Ma ero diffidente. Lei aveva l’abitudine di escludermi quando le parlavo, e al mio amore si mescolava un profondo risentimento nei suoi confronti.

Per tutta la vita l’avevo vista leggere i suoi libri italiani e scrivere lettere a Napoli, la città dov’era cresciuta; tuttavia non aveva mai avuto la pazienza d’insegnare l’alfabeto a me e ai miei fratelli. E non era cambiato nulla, dopo il mio ritorno dal convento. Avevo vent’anni e non sapevo leggere e scrivere altro che poche preghiere e il mio nome. Odiavo i suoi libri, odiavo l’attenzione che lei gli dedicava.

E vagamente odiavo il fatto che soltanto la mia estrema sofferenza poteva ispirarle calore e interesse.

Eppure era stata la mia salvatrice. E non c’era altri che lei. Ed ero stanco d’essere solo, come può esserlo soltanto un giovane.

Adesso era lì, fuori dai confini della sua biblioteca, e la sua attenzione era rivolta a me.

Finalmente mi convinsi che non si sarebbe alzata per andarsene, e mi decisi a parlarle.

«Madre», dissi a voce bassa, «c’è qualcosa di più. Prima che accadesse, c’erano momenti in cui sentivo cose terribili.» La sua espressione non cambiò. «Voglio dire, a volte sogno che potrei ucciderli tutti», dissi. «Uccido i miei fratelli e mio padre, nel sogno. Passo da una stanza all’altra sterminandoli come ho sterminato i lupi. Scopro in me stesso il desiderio di uccidere…»

«Anch’io, figliolo», disse lei. «Anch’io.» Mentre mi guardava, il suo viso s’illuminò di un sorriso stranissimo.

Mi protesi per scrutarla più da vicino. Abbassai la voce. «Vedo me stesso urlare, quando avviene», continuai. «Vedo la mia faccia contratta in smorfie terribili e sento l’urlo che esce dalla mia gola. La mia bocca è atteggiata in una ‘O’ perfetta e ne erompono grida.»