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Dall’équipe di Dom, nessuno, a parte forse Larry, avrebbe potuto dire con sicurezza quanto tempo fosse rimasto sottoterra, praticamente prigioniero di quella nave enorme che bullone per bullone, giunzione per giunzione, diventava sempre più grande, lassù a gravità zero dove veniva costruita. Larry sì, Larry era probabilmente l’unico che avrebbe saputo dire subito con sicurezza da quanto tempo erano tutti confinati nel sottosuolo; questo perché aveva svolto la sua principale funzione nel giro di un solo giorno. Adesso ci si serviva di lui per tenere i contatti. Era l’unico che ogni tanto lasciasse il MINESPOV, e probabilmente l’avventurarsi fuori era per lui il solo modo di conservare la sanità mentale. Era annoiato e soffriva la solitudine, perché Doris era totalmente assorbita dal suo lavoro col computer.

Le settimane diventarono mesi. Era quasi ora di cominciare a trasferire lo staff al MINESLUN, quando i terristi fecero la loro mossa e denunciarono la propria presenza con una scarica di mortaio che non arrivò nemmeno alla torre di controllo del cancello principale. A quei colpi di avvertimento fece seguito un assalto furioso al perimetro, condotto su due lati.

Quando ci fu la prima esplosione nel sottosuolo Dom non ci badò per niente. Quel rumore non veniva dal suo complesso, e lui era abituato alle prove d’ogni genere che venivano fatte quotidianamente. Continuò a lavorare finché nel suo ufficio non cominciarono a lampeggiare le spie rosse dell’allarme. Le guardò stupito, ma non capì cosa stava succedendo se non quando entrò nel duo ufficio Larry Gomulka. Questa volta, diversamente dal solito, non sorrideva affatto.

— Ci stanno attaccando — disse Larry.

— Non è proprio il momento — disse distratto Dom. — Adesso non ho tempo.

— Non c’è scelta, amico — disse Larry tirando fuori un sorriso. — Vieni nel rifugio.

Dom si preoccupò che il suo staff, di cui facevano parte anche parecchi tecnici, trovasse adeguato riparo. Si recò nell’ufficio di J.J. attivando da solo la monorotaia. Il settore di J.J. era piantonato da marines spaziali. Dom dovette mostrare la carta di riconoscimento, e quando fu fatto entrare nell’ufficio, J.J. non c’era. Un giovane cadetto gli disse di tornare nel suo settore e di trovare riparo.

— Ce la sbrigheremo in fretta — disse il cadetto — e dopo potrete tornare al lavoro.

Dom percorse corridoi vuoti, prese un ascensore e s’infilò in una torre di osservazione. Là trovò J.J. che guardava col binocolo.

Davanti al reticolato che circondava il perimetro si stava combattendo una battaglia su piccola scala. Erano scattate le difese automatiche e i primi terristi che si erano fatti avanti erano stati uccisi dal reticolato elettrificato. Lungo i due lati che gli assalitori avevano scelto per condurre l’attacco, si vedevano file di cadaveri. Sul luogo erano stati mandati i marines, e le loro armi producevano un rombo continuato.

— In quanti sono? — chiese Dom.

— Le prime stime dicono circa cinquemila — disse J.J.

Dom, con un senso di nausea, pensò che potevano diventare cinquemila cadaveri.

— Ma che motivo hanno? — disse J.J., mentre una vecchia granata ad alto potenziale esplodeva a un centinaio di metri dalla torre. — Non capisco proprio.

— Io non riesco mai a capire la stupidità — disse Dom.

— La prima cosa che mi sono chiesto è dove siano le vere truppe d’assalto — disse J.J. — Questa qui non è altro che una diversione.

— Per essere una diversione è abbastanza sanguinosa — disse Dom, cercando di distogliere gli occhi dai cadaveri sparsi lungo il reticolato.

— L’aviazione non ha individuato altro che i due gruppi che hanno attaccato da due lati opposti — disse J.J.

Era puro suicidio. Cosa speravano di ottenere attaccando un grosso complesso ben difeso come quello? Avessero almeno avuto armi avanzate, ma disponevano solo di due vecchi mortai e di alcuni fucili. Una diversione, diceva J.J. Ma una diversione da cosa?

— Il computer! — esclamò Dom d’un tratto.

— Calma — disse J.J. — È la prima cosa cui ho pensato. Ho mandato subito giù un manipolo di marines.

— Vado a dare un’occhiata — disse Dom.

Dopo che si erano viste le prime strutture interne dell’astronave, si era cominciato a pensare alla Follia come a una realtà, ma quei due o tre elementi che erano stati montati non volevano ancora dire niente. Per il momento la Follia esisteva solo in astratto, nel cervello di Dom, di Doris e di Art, e soprattutto nei circuiti del computer principale di Doris. In quella macchina c’erano mesi di lavoro e miliardi di dollari e nessun cervello umano avrebbe potuto fornire quell’enorme quantità di informazioni senza ricominciare tutto da capo. Se fosse stata distrutta la memoria del computer, la John F. Kennedy si sarebbe ridotta a qualche disegno sulla carta, a qualche appunto, e qualche idea tanto preziosa quanto inutile nella mente di chi aveva iniziato il progetto.

Il complesso dove lavorava e abitava lo staff di Dom era nella zona considerata più sicura del MINESPOV, nel profondo sottosuolo, ed era servito solo dalla monorotaia. Tra i laboratori nascosti e il mondo di superficie c’erano più di cento metri di roccia e terreno. La ferrovia sotterranea, sorvegliatissima, penetrava in quel nucleo soltanto da un punto.

Dom si fece riconoscere dai marines di guardia e, mentre veniva trasportato dalla velocissima monorotaia, si disse che forse si stava preoccupando senza ragione. Ben presto la monorotaia si fermò. Dom entrò in un dedalo di corridoi e corse verso la zona del computer. Imboccò il corridoio del rifugio anti-radiazioni e vide subito che la porta interna era spalancata. Quella porta era costruita in modo da far passare solo quelli la cui impronta della mano era registrata (fra costoro, naturalmente, c’era anche lui). Dom trattenne il respiro e sbirciò con prudenza oltre la porta.

La morte, pensò, appare più vicina e tangibile quando colpisce persone che si conoscono. In terra erano riversi vari corpi, alcuni dei quali in posizioni grottesche. Con un senso di nausea, Dom contò i corpi. Il rifugio era destinato a contenere quattordici persone. Lui ne contò undici, più volte, per essere sicuro. Non riusciva a capacitarsi che fossero così tanti.

Erano stati usati proiettili esplosivi. Il pavimento aveva un nuovo tappeto, rosso, attaccaticcio, che emanava un odore caratteristico. Dom dovette spostare tre corpi per riuscire a vederne le facce. Gli undici morti erano tecnici e scienziati che erano stati aggiunti allo staff. Art Donald, Doris e Larry non erano tra loro.

Dom uscì dalla stanza e s’incamminò piano lungo il corridoio, dirigendosi verso i laboratori e la sala del computer. Al primo angolo che girò trovo i corpi di due marines spaziali. I manipoli erano composti di otto uomini. Questo significava che, di quelli mandati da J.J., ne restavano sei.

Dom raccolse un fucile automatico a canne mozze da terra, vicino a uno dei marines. Rimase in ascolto un attimo, e in quel momento nel corridoio echeggiò lo sparo di un’arma automatica. Dom si slanciò avanti e mentre correva alla cieca nel corridoio che portava alla sala del computer, rischiò per un pelo di essere fatto secco. La porta della sala si spalancò di colpo e un uomo in calzamaglia nera, con la faccia nascosta da un cappuccio nero, gli scaricò addosso una pioggia di proiettili. Dom si buttò in un corridoio trasversale, registrando con terrore il frastuono dei proiettili esplosivi che gli sibilavano intorno. Malgrado i polmoni che sembravano volergli scoppiare, s’impose di correre.

Il suo impulso sarebbe stato di fermarsi e aspettare, ma sapeva che doveva muoversi. Si diresse verso l’area residenziale, raggiunse l’appartamento di Doris e spalancò con un calcio la porta. La stanza era vuota. Dom premette il comunicatore. Non funzionava. In ciascuna stanza del complesso c’era un bottone d’allarme che, in caso di pericolo, qualsiasi membro dello staff poteva premere per chiamare le forze della sicurezza. Dom premette il bottone d’allarme della stanza di Doris e aspettò che si accendessero le spie luminose e che suonasse la sirena, ma non successe niente.