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Parlando con l’equipaggio della nave pattuglia, Doris rimase impressionata dalle parole di un giovane spaziale.

— Quando ci siete vicini — disse — il pianeta inghiotte tutto lo spazio e giganteggia talmente sopra la vostra testa, che vi svegliate coi sudori freddi pensando che stia per precipitarvi addosso.

Tutti quelli che erano stati vicini a Giove erano rimasti impressionati dalla mole del pianeta.

Una delle cose che a Dom piacevano di più di Marte era il senso di solidarietà che caratterizzava la gente della base. Tutti avvertivano la cordialità di quella popolazione, e tutti ne partecipavano: i visitatori temporanei, gli spaziali, i coloni stabili, gli scienziati. L’asprezza del suolo, i milioni di chilometri che separavano il pianeta dalla Terra, lo strano aspetto del Sole, che nel cielo era due terzi più piccolo di come appariva visto dalla Terra, erano tutti elementi che contribuivano a far sentire le persone più vicine l’una all’altra. Nonostante le guardie armate che circondavano costantemente la Kennedy, era difficile credere che la guerra che si svolgeva sulla Terra potesse avere un’influenza su Marte. Dom era convinto che se un fanatico terrista avesse potuto infiltrarsi nella marina spaziale e arrivare fino a Marte, poi sarebbe rimasto colpito dal senso di serenità e di collaborazione condiviso da tutti gli spaziali, e avrebbe dimenticato le sue idee per diventare solo uno spaziale. Quanto si sbagliasse fu dimostrato dal tentativo di attaccare una mina al quarto razzo di sinistra della Kennedy, attentato effettuato da uno spaziale soldato semplice che aveva alle spalle dodici anni di servizio. Colto in flagrante, l’uomo trascinò con sé nella morte due marines spaziali. I tre cadaveri furono portati nel piccolo cimitero della stazione di Marte.

Quell’incidente turbò un po’ la gioia e la felicità che Dom sentiva da quando Doris gli aveva detto di sì quella notte, nella sala di controllo. Pensare che le follie della Terra potessero contaminare Marte gli dava un senso di depressione. Fu contento quando la stiva fu richiusa e pressurizzata e la Kennedy fu di nuovo pronta a partire.

La parte più lunga del viaggio era ancora da venire. Avevano percorso circa la metà di un’unità astronomica per raggiungere Marte, ovvero la metà della distanza tra la Terra e il Sole: in una parola, circa settantacinque milioni di chilometri. La distanza tra Marte e Giove era di circa tre unità astronomiche e tre quarti, vale a dire qualcosa come cinquecentottanta milioni di chilometri. Quando si cominciava a pensare a cifre del genere, la mente tendeva a rifiutare l’idea di uno spazio così vasto, e a pensare al viaggio in termini di mesi. A Dom piaceva ricordare che i pionieri avevano impiegato, per andare con le carovane dal Midwest alla costa del Pacifico quanto ci impiegava adesso una nave per andare dall’orbita di Marte a quella di Giove. La Kennedy, col suo potere illimitato d’accelerazione, era ottima per le grandi distanze. Riusciva a guadagnare velocità in fretta, aveva un’elevata velocità di crociera, e rallentava più in fretta delle navi tradizionali.

Dopo un’accurata ispezione della nave, che venne effettuata anche se nessun uomo dello staff di Marte era salito a bordo, tutti quanti tornarono alla comoda routine che si era stabilita durante le ultime settimane del viaggio verso Marte. I motori di Jensen spinsero, e poi si riposarono. L’accelerazione continuò fino a ben oltre metà strada. Vicino a Giove era ancora in ascolto una nave pattuglia, e chi era di turno sull’una o sull’altra nave fu felice di trovare compagnia nella vastità dello spazio, e di parlare usando a volte così poca energia da non trasmettere nemmeno fino alla Terra quello che veniva detto in modo molto informale.

Al momento di rallentare la nave, Neil e Jensen operarono il dietro front e la spinta d’inversione cominciò a opporsi alla spinta in avanti.

Sulla Terra, la situazione era piuttosto stabile, pur nella sua gravità. La linea di difesa Chicago-Corpus Christi teneva, e ilMINESPOVnon si arrendeva. La propaganda infuriava ancora, e le masse cominciavano a far sentire la loro voce per mancanza di cibo e di beni di consumo. Alcune delle battaglie più sanguinose erano state combattute nella fascia coltivata a grano delle grandi pianure. Grandi aree di terreno agricolo fertile erano state devastate, e sarebbe stato sicuramente difficile seminare per i raccolti di primavera.

Non era più possibile liquidare con una semplice frase di disprezzo il senatore del New Mexico, perché si era rivelato lui l’uomo al comando delle forze radicali, e adesso lo si citava per lo più col suo nome e cognome: John V. Shaw. Si era dimostrato non solo un abile organizzatore, ma anche un brillante tattico in campo militare. Shaw stava predicando alle masse il vangelo della rivolta, prometteva di ritirare dallo spazio tutti i fannulloni che lo popolavano, di eliminare le astronavi trasformandole in terreno coltivabile capace di produrre cibo, di dare alla popolazione una nuova forma di libertà. Quale, ancora non era chiaro. Era chiaro invece che il messaggio del senatore diventava sempre più attraente per le masse, a mano a mano che il cibo diventava sempre più scarso.

L’equipaggio della Kennedy era convinto che fosse solo una questione di tempo, e che prima o poi milioni di persone affamate si sarebbero convertite alla causa di Shaw. La fame è la cosa che più di ogni altra rende la gente schiava di chi promette, e vasti segmenti dell’est metropolitano si sarebbero trovati ad affrontare la carestia col sopraggiungere dell’inverno. Il momento era critico. J.J. disse che bisognava portare a termine in fretta la missione, e cercare di tornare sulla Terra per il periodo di Natale.

— Credo che tu sia un po’ troppo ottimista, J.J. — disse Dom. — In questo modo concedi troppo poco tempo alla discesa nell’atmosfera, all’individuazione della nave, e al suo salvataggio.

— Ce la faremo — disse J.J.

— È un pianeta molto grande — disse Art.

— Potremo stabilire la direzione basandoci sul segnale radio — disse J.J. — Non sarà difficile localizzare la nave.

— C’è sempre qualche difficoltà nelle situazioni nuove — disse Neil. — Tenete a mente che ci troviamo a bordo di una nave non ben collaudata, e in una situazione estremamente delicata.

— Che importanza ha il collaudo in un caso del genere? — disse J.J. — È una faccenda molto semplice. O ce la fa, o non ce la fa. Nell’atmosfera ci deve penetrare, questo è chiaro. Dovrebbe andarci comunque, se si volesse collaudare lo scafo, quindi perché stare tanto a cincischiare? Ci andiamo, e basta. Se la nave non imploderà, riusciremo anche a tornare fuori. Perché preoccuparsi?

— È facile a dirsi — disse Ellen.

— Non entreremo nell’atmosfera senza avere prima collaudato lo scafo — disse Dom, deciso. J.J. lo guardò. — Non intendo abbassarmi al livello dei terristi, J.J. — disse Dom. — Alla mia vita do un valore. Do un valore a tutte le vite che sono a bordo di questa astronave. Perciò cacceremo il naso dentro, valuteremo l’efficacia della pressurizzazione dello scafo, e poi avanzeremo per gradi.

— E se non sarai soddisfatto di qualcosa? — disse J.J.

— La decisione spetterà a me — disse Dom. — Mi prenderò io la responsabilità.

— Mi chiedo solo se varrebbe la pena tornare, se fallissimo — disse J.J.

— È umano aggrapparsi alla vita anche quando non c’è alcuna speranza — disse Dom.

— Specie per uno come te che si è appena sposato — disse J.J.

Dom guardò J.J. dritto negli occhi. — Mi offendi, J.J. La mia vita privata riguarda solo me, almeno finché non mi trattiene dal compiere il mio dovere. Ti sfido a trovare anche un solo esempio di mancanza da parte mia: i miei fatti privati non hanno mai influenzato le mie decisioni, né mi hanno mai allontanato dal compimento dei miei doveri.