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— Scusami, Flash — disse J.J. — Sono preoccupato, ecco tutto.

— Lo siamo tutti — disse Doris.

Dom mise al lavoro l’equipaggio su prove di funzionamento riguardanti la prossima discesa. Era un po’ presto per farlo, ma stavano diventando nervosi, e le prove servivano a tenerli occupati. Non concesse più neanche un attimo alla sua privacy. Dom e Doris evitarono accuratamente di stare da soli, come per dimostrare agli altri che il loro matrimonio non aveva influenzato in alcun modo il loro rendimento.

Tre giorni prima di entrare in orbita attorno al gigante gassoso, la Kennedy captò il segnale della nave aliena. Pareva un miracolo che quel segnale ci fosse ancora e che avesse la stessa intensità di molti mesi prima, quando la Kennedy si limitava ad essere ancora un sogno e un insieme di dati contraddittori nel computer delMINESPOV. Il fatto che la nave fosse ancora là a inviare segnali rinforzava la teoria secondo la quale si sarebbe trovata intrappolata nell’atmosfera di Giove, e sarebbe stata incapace di sfuggire al campo gravitazionale del pianeta gassoso.

— Se c’è qualcuno a bordo di essa — disse Art — sarà felice di vederci.

Nei giorni precedenti l’entrata in orbita, Doris fu molto indaffarata col computer. Controllò e ricontrollò tutti i dati. Il compito di mettere la nave in orbita e poi di farla scendere con grande delicatezza nell’atmosfera spettava a Doris. I dati forniti dal computer di bordo dovevano essere più che esatti, per dare le informazioni giuste ai meccanismi automatici e a Neil.

Superarono l’ultima nave pattuglia e ricevettero gli auguri di buona fortuna dall’equipaggio. Dal punto di vista delle distanze spaziali, erano praticamente porta a porta con la nave pattuglia, ma ne erano ugualmente abbastanza lontani da non vederla. L’altra nave sarebbe rimasta in orbita a osservare la Kennedy scendere.

Ormai erano agli sgoccioli. La massa di Giove copriva metà dello spazio. I satelliti erano visibili a occhio nudo. La nave si mosse rapidamente attorno al pianeta, sopportando le sue radiazioni, il suo campo elettrico, la sua gravità. La Kennedy mostrò di funzionare perfettamente.

A causa della velocità di rotazione di Giove e della sua potente forza di gravità, la Kennedy sarebbe dovuta penetrare nell’atmosfera in fretta, molto in fretta. L’energia avrebbe dovuto essere costante, per controbilanciare la forza di gravità. Dopo che furono effettuate le prove dell’ultimo minuto, non ci furono più ordini formali. Il computer stabilì il momento e Neil non toccò nemmeno i comandi, quando la nave cominciò a scendere a spirale.

La Kennedy era minuscola vicino alla massa immensa del pianeta, una massa che era due volte e mezzo più pesante di quella di tutti gli altri pianeti del sistema solare messi assieme. L’astrocisterna procedette verso il pianeta, con l’energia e la velocità di discesa regolate dal computer di Doris. L’equipaggio ebbe la sensazione di cadere in un inferno di brillante fuoco giallo mentre orbitava dalla parte del Sole, e cominciò a vedere a occhio nudo il gigantesco uragano della zona tropicale sud, che soffiava da secoli alla velocità di molte centinaia di chilometri all’ora.

I gradienti del vento negli strati di atmosfera erano tremendi, e la massa minuscola dell’astronave era scossa pesantemente dalla turbolenza atmosferica. Mentre la nave scendeva sempre di più, ciascun membro dell’equipaggio era perfettamente consapevole che se l’energia fosse venuta meno, la Kennedy sarebbe stata afferrata dall’intensa forza gravitazionale, che era tre volte quella della Terra, e che la pressione fuori si sarebbe accumulata paurosamente. La nave, trascinata inesorabilmente in giù, avrebbe attraversato una zona di cristalli d’ammoniaca ghiacciata, poi una zona di ammoniaca liquida e infine la zona di composti colorati che davano all’atmosfera il suo caratteristico colore giallo. Nella loro tragica corsa in giù sarebbero passati accanto a cristalli di ghiaccio e poi a una zona di vapore acqueo, e sarebbero morti tutti prima ancora che i resti schiacciati della nave precipitassero in una zona di idrogeno liquido molecolare. Poi, quando la pressione fosse arrivata a tre milioni di atmosfere, quel che fosse rimasto della nave sarebbe passato in una zona di transizione fra l’idrogeno liquido molecolare e l’idrogeno liquido metallico, e la temperatura sarebbe salita, fondendo i resti della Kennedy e i resti ancora più insignificanti del suo equipaggio terrestre.

Su un modello di pianeta grande quanto una mela, la zona operativa della Kennedy poteva essere rappresentata dallo spessore della buccia del frutto. Sotto quel sottilissimo strato operativo c’erano l’immediata implosione dello scafo e la morte.

Quant’era grande quel mostro! Era psicologicamente soffocante. Ingoiava tutto lo spazio che si vedeva dagli oblò. Aveva il peso di una stella mancata, e una massa incredibile. Quando la Kennedy si girò, quell’immenso disco giganteggiò sopra di essa, e l’equipaggio provò un senso di stordimento. Ellen si coprì gli occhi con le mani quando il gigante gassoso venne loro incontro con la sua pressione, la sua gravità, le sue scariche elettromagnetiche. La Kennedy arrivò vicino all’orbita del satellite più interno, Amaltea. Adesso Amaltea era sopra di loro e un po’ più avanti rispetto a loro, e la nave si trovava tra l’orbita del satellite e lo strato più esterno di nubi. D’un tratto ci fu una grande scarica di elettricità che illuminò la zona tra il satellite e il pianeta; nel vuoto era silenziosa, ma brillante e terribile, e se la nave ne fosse stata colpita le conseguenze sarebbero state fatali. Ancora una volta, mentre Dom tratteneva il fiato, una tremenda scarica illuminò la zona tra il pianeta e il satellite.

— Credo che stia cercando di dirci qualcosa — disse Neil, con voce da cui trapelavano fascino e sgomento.

— Il vecchio Giove, dio dei fulmini — disse J.J. — sta dicendo: Osservate la mia potenza, volgari mortali, e guardatevi da me.

— Non sapevo che avessi un’ anima poetica — disse Dom.

Dom era turbato dalla grandezza di Giove. Il pianeta era là sopra le loro teste, immenso, mentre la Kennedy continuava a scendere misurando le proprie forze. I sensori dello scafo cominciarono a riconoscere la presenza delle prime lievi tracce di atmosfera. La Kennedy si stava comportando bene. Gli strumenti lavoravano e misuravano e fornivano indici di riferimento, e il computer ronzava. Molecole sparse di ammoniaca ghiacciata produssero una graduale diminuzione della visibilità. La Kennedy continuò a scendere in uno scuro mare di cristalli, che lo scafo scioglieva. La temperatura stava salendo, ma rientrava perfettamente nei livelli operativi.

— Mettetela in orizzontale — disse Dom quando la pressione fuori diventò quella di un’atmosfera terrestre.

Neil tolse il pilota automatico, per sentire di più la nave in caso ci fosse stato un guasto ai sistemi. L’astrocisteraa era in un’orbita stazionaria, e la pressione era sui valori previsti.

Era il momento di collaudare una delle più importanti armi di battaglia che la Kennedy poteva sfoderare contro il gigante gassoso. Dom ordinò una pressione di due atmosfere nei reparti abitati. Sentì le orecchie fischiargli mentre la pressione si accumulava. Enormi pompe cominciarono a togliere aria pura dalla stiva e a fare entrare al suo posto l’atmosfera velenosa di Giove.

Soddisfatto che il sistema di pressurizzazione interno funzionasse a dovere, Dom ordinò di scendere fino ad avere un livellamento di pressione. Poi, ogni volta, il processo veniva ripetuto. In quell’atmosfera buia, la nave vedeva solo grazie agli strumenti e si teneva direttamente sopra la nave aliena, guidata dal suo segnale costante. Quel segnale e quella nave erano lo scopo di tutta l’impresa. Era stata la nave aliena ad attirarli fin lì, a determinare queill’ultimo disperato tentativo da parte dell’industria spaziale. Solo la nave aliena e il suo segnale giustificavano il costo della Kennedy, i rischi che si correvano, l’uso di materiali rari.