E il segnale cessò quando la Kennedy era già scesa fino a solo sei atmosfere.
Si fece un improvviso silenzio quando questo accadde, e di colpo la Kennedy parve diventare come un dinosauro: una cosa immensa senza più alcuno scopo.
— Controllare le apparecchiature — ordinò Dom.
— Tutto controllato — disse Doris.
— Controllo manuale — disse Dom. — Mantenete questa posizione.
Lui stesso fece un controllo manuale del ricevitore. Funzionava perfettamente. Un controllo radio con la nave pattuglia confermò loro che il segnale proveniente dalla nave aliena era cessato all’improvviso.
— Perdio — disse Dom — e siamo solo a metà strada. — Erano a metà strada per quanto riguardava la distanza, non la pressione. — Resteremo qui qualche ora. Forse ricomincerà.
Passarono quattro ore, durante le quali la nave funzionò alla perfezione. La nave aliena continuò a tacere.
— Forse ci hanno sentito arrivare e non vogliono compagnia — disse Doris.
— No, è cessato semplicemente — disse J.J. — E già molto che sia durato così a lungo. La nave è ancora là.
— Per quello che serve — disse Dom.
— Abbiamo la posizione — disse J.J. — Possiamo scendere esattamente sopra di essa.
— È del tutto improbabile — disse Neil. — I venti sono potenti, anche se non andiamo a vela ma a motore, e ci sposterebbero. Senza il segnale a guidarci, non potremmo che affidarci al caso, per raggiungerla.
— La discesa è calcolata dal computer — disse J.J. — Possiamo portare delle correzioni ai calcoli. Possiamo arrivare a qualche miglio dal punto e cercare.
— Se avessimo cent’anni a disposizione potremmo forse anche trovarla — disse Dom.
— Abbiamo tempo — disse J.J. — E inoltre abbiamo energia, aria e provviste.
— J.J., abbiamo costruito questa nave per restare a tremila atmosfere un lasso di tempo limitato — disse Dom. — Dopo dieci giorni comincerei ad avere paura dell’affaticamento metallico nell’incollaggio porridge.
— Va bene, abbiamo dieci giorni — disse J.J. — Se non altro usiamoli.
— Vorrei osservare che in questo caso esporremmo la nave e il suo equipaggio a un pericolo inutile — disse Neil. — Secondo me, procedere oltre dentro l’atmosfera è ormai inutile. Se ci fossi io solo a bordo porterei la Kennedy fino a tremila atmosfere, giusto per verificare l’efficacia del progetto, ma non sono solo. E una cosa è mettere a repentaglio la vita di un pilota collaudatore durante un volo di prova, un’altra mettere a repentaglio la vita di un intero equipaggio.
— Resteremo qui ancora per un’ora — disse Dom.
Fu un’ora carica di tensione, e quando terminò J.J. si mise a camminare su e giù per la sala di controllo con aria ingrugnita. Dom aveva passato l’ora lavorando con Doris, a cui aveva fatto fare una serie di controlli.
— J.J. — disse — se avessimo una probabilità su mille di trovare la nave la porterei giù, ma ho fatto i calcoli col computer, e le probabilità di trovarla sono una su un miliardo. Ho anche fatto alcuni calcoli sulle probabilità di sopravvivenza in caso si resti a lungo a tremila atmosfere. Dopo otto giorni, le probabilità che la nave non regga diventano troppe. Credo che noi serviamo più vivi che morti, e che la nave possa servire in futuro a fare la spola Marte-Terra. In una parola, sto dando l’ordine di riportarla su, fuori dall’atmosfera.
— Allora sono costretto a chiederti di rinunciare al comando — disse J.J.
— No — disse calmo Dom. — Sono io il Comandante. La nave l’ho costruita io, e conosco i suoi limiti.
— Non hai scelta — disse J.J.
— Come tuo superiore di grado, ti informo che il comando lo assumo io. Signor Walters, preparatevi a portare la Kennedy a tremila atmosfere.
— Con il dovuto rispetto, signore, mi rifiuto di obbedire — disse Neil. — Non sono d’accordo sul fatto che il Comandante Gordon debba essere destituito.
J.J. si trovava davanti a loro, e aveva le mani dietro la schiena. Si guardò i piedi e si spostò lentamente, tenendo le mani sempre dietro la schiena. Rimase a lungo così, girato quasi di profilo rispetto a loro, poi si voltò di scatto. In mano aveva una pistola, piccola ma micidiale. Era un’arma concepita per uccidere a distanza ravvicinata, in ambienti particolarmente delicati, come poteva essere quello di un’astronave. L’esplosione dei suoi proiettili multipli poteva essere fatale a chiunque si trovasse alla distanza di circa un metro, ma la forza impressa ai proiettili stessi non era sufficiente a produrre, per esempio, dei buchi nello scafo della nave.
— Mi dispiace di dover arrivare a questo — disse J.J. — Ma faremo il lavoro per cui siamo venuti.
— Non in questo modo — disse Dom.
— Non mi avete lasciato altra scelta.
— Siete uno contro sei — disse Neil. — Non potete stare all’erta in continuazione.
— J.J. — disse Dom — metti via quell’aggeggio. Se sei così convinto che si debba scendere, scenderemo. Siamo venuti fin qua di comune accordo. Scenderemo a tremila atmosfere di comune accordo.
— I miei più sinceri ringraziamenti — disse J.J.
— Pistola o no, resteremo a tremila atmosfere non più di sette giorni. Chiaro? — disse Dom.
— D’accordo — disse J.J.
— Sono d’accordo tutti? — chiese Dom. — Portiamo la nave a tremila atmosfere perché faccia quello che era venuta a fare, invece di correre il rischio che qualcuno venga ucciso nel tentativo di opporsi alla volontà di J.J.
Gli altri si dissero d’accordo.
— Ciascuno ai suoi posti — disse Dom. — Scendiamo. Non torneremo che con alcuni milioni di metri cubi di atmosfera di Giove nella stiva, ma voglio fare di tutto perché si torni sani e salvi.
Scesero piano e con cautela. L’equipaggio lavorò come niente fosse: l’incidente che aveva avuto a protagonista J.J. sembrava dimenticato. Dom dovette ammettere in cuor suo che non aveva mai cessato di desiderare di scendere a tremila atmosfere. Mentre la nave si avventurava in una zona dove l’uomo non era mai stato, Dom aveva quasi la sensazione di avvertire tangibilmente la pressione che si esercitava sullo scafo. La Kennedy procedeva con costanza, scossa da venti che soffiavano a centinaia di miglia l’ora, e difesa da essi soltanto dalla forza bruta della propulsione nucleare. Solo una volta la nave subì una deviazione a causa del vento, ma gli automatismi intervennero subito per compensare l’errore di rotta.
I sensori dello scafo denunciavano i cambiamenti nell’atmosfera. L’ammoniaca ghiacciata diventò ammoniaca liquida, poi la nave arrivò nella zona dei composti gialli. La pressione continuava inesorabilmente ad accumularsi. A duemila atmosfere l’aria dentro la nave sembrava viscosa, pesante, opprimente. Ma la Kennedy reagiva bene alle incredibili forze che le si opponevano, le giunzioni fatte con l’incollaggio porridge funzionavano come previsto, gli strumenti registravano che in tutte le zone dello scafo si era ancora abbondantemente entro i limiti di sicurezza.
La nave cominciò a emettere segnali, cercando di ottenere in risposta quello della nave aliena, ma non trovò altro che un’ atmosfera sempre più densa. Il pericolo che stava laggiù, sotto la Kennedy, andava oltre ogni immaginazione. La distanza coperta dalla nave orbitante alla velocità di una rotazione rapida non era certo un fattore che facilitasse la salvezza.
I venti di Giove soffiavano contro lo scafo con immensa furia. E la gravità del pianeta era sempre in agguato, pronta ad afferrare la Kennedy in caso l’energia fosse venuta a mancare, e ad attirarla verso il nucleo del pianeta.
I reparti abitati della nave si trovavano adesso fra due pressioni, quella dell’atmosfera esterna, e quella dell’atmosfera di Giove raccolta nella stiva. La Kennedy aveva moltiplicato il proprio peso incamerando i gas gioviani, ma i motori nucleari non ne avevano risentito minimamente.