— È ancora in piedi — ha detto Bence-Jones. — Hai fatto un brutto sogno?
— Sì — ho risposto, ricordando i brutti sogni di tutte le ultime settimane… il gatto morto tra le mie braccia in St. John’s Wood, Langby con il pacco e il Worker sotto il braccio, la lapide del servizio antincendio illuminata dalla lanterna di Cristo. Poi ho ricordato che non avevo sognato proprio nulla. Avevo dormito quel tipo di sonno che avevo invocato, il sonno che mi avrebbe aiutato a ricordare.
Allora ho ricordato. Non San Paolo, bruciato dai comunisti. Un titolo dei quotidiani. «Colpito l’Arco di Marmo. Diciotto morti.» La data non era chiara, a parte l’anno. Del 1940 restavano esattamente due giorni. Ho preso la giacca e la sciarpa e ho salito di corsa la scala e ho attraversato il pavimento di marmo.
— Dove diavolo credi di andare? — mi ha gridato Langby. Non lo vedevo.
— Debbo salvare Enola — ho detto, e la mia voce echeggiava nella cattedrale buia. — Bombarderanno l’Arco di Marmo.
— Non puoi andare adesso — mi ha gridato dietro. Era proprio dove avrebbero messo la lapide commemorativa. — C’è la bassa marea. Sporco…
Non ho sentito il resto. Avevo già sceso a precipizio la scalinata ed ero saltato a bordo di un tassì. Ho speso quasi tutto il denaro che avevo e che tenevo scrupolosamente da parte per il viaggio di ritorno a St. John’s Wood. Il bombardamento è incominciato quando eravamo ancora in Oxford Street, e il tassista si è rifiutato di andare oltre. Mi ha lasciato nel buio pesto, e ho capito che non avrei fatto in tempo.
Maledizione. Enola accasciata sulla scala della metropolitana, con i sandali ancora ai piedi, e senza un segno addosso. E quando cerco di sollevarla è come se fosse di gelatina sotto la pelle. Avrei dovuto avvolgerla nella sciarpa che mi aveva regalato, perché ero arrivato tardi. Ero tornato indietro di cent’anni ed ero arrivato in ritardo per salvarla.
Ho corso per gli ultimi isolati, guidato dalla postazione dei cannoni che doveva essere in Hyde Park, e ho sceso come un pazzo la scala dell’Arco di Marmo. La donna della biglietteria si è presa il mio ultimo scellino per un biglietto per la stazione di San Paolo. L’ho infilato in tasca e sono corso verso la scala.
— Non corra — ha detto lei, placidamente. — A sinistra, prego. — La porta a destra era bloccata da barriere di legno, il cancello metallico era chiuso da una catena. Sul cartello con i nomi delle stazioni c’era una croce di nastro adesivo, e un cartello nuovo con la scritta «Tutti i treni» era inchiodato alla barriera e indicava la sinistra.
Enola non era sulle scale mobili bloccate e non era seduta contro il muro della galleria. Sono arrivato alla prima scala e non sono riuscito a passare. C’era una famiglia accampata proprio dove volevo passare io, e prendeva il té con pane e burro, un vasetto di marmellata chiuso con la carta oleata, e un bricco su un fornello come quello che io e Langby avevamo tirato fuori dai calcinacci, e tutto era steso su una tovaglia con un fregio di fiori ricamato negli angoli. Mi sono fermato a guardare quella tovaglia apparecchiata per il té, disposta come una cascata sui gradini.
— Io… l’Arco di Marmo… — ho detto. Altre venti persone uccise dalla caduta delle piastrelle. — Non dovreste star qui.
— Abbiamo lo stesso diritto degli altri — ha detto l’uomo con aria bellicosa. — E lei chi è, per dirci che dobbiamo andar via?
Una donna che stava tirando fuori i piattini da una scatola di cartone mi ha guardato, impaurita. Il bricco ha incominciato a fischiare.
— È lei che deve andare — ha detto l’uomo. — E allora vada. — Si è tirato da una parte per farmi passare, e sono passato accanto alla tovaglia ricamata.
— Scusi — ho detto. — Sto cercando una persona. Sulla piattaforma.
— Non la troverà mai là dentro, amico — ha detto l’uomo, indicando con il pollice. Sono corso via, evitando appena di calpestare la tovaglia. Ho girato l’angolo e sono piombato nell’inferno.
Non era l’inferno. C’erano alcune commesse che avevano piegato i cappotti e ci stavano appoggiate, allegre o imbronciate o stizzite, ma certo non avevano l’aria delle dannate. Due ragazzini si stavano disputando uno scellino, e l’hanno perso perché è rotolato sui binari. Si sono sporti dal marciapiedi, discutendo per decidere se dovevano andare a recuperarlo o no, e una guardia gli ha gridato di stare indietro. È passato rombando un treno carico di gente. Una zanzara si è posata sulla mano della guardia e l’uomo ha fatto per schiacciarla, ma l’ha mancata. I ragazzini hanno riso. E dietro di loro e davanti a loro, in tutte le direzioni sotto le esiziali piastrelle bianche della galleria; sdraiati come feriti, nelle entrate e sulle scale, c’erano centinaia e centinaia di uomini e donne e bambini.
Sono tornato barcollando nella galleria, rovesciando una tazza. Il tè si è sparso sulla tovaglia come un lago.
— Gliel’avevo detto, amico — ha commentato allegramente l’uomo. — Là dentro è l’inferno, no? E sotto è anche peggio.
— L’inferno — ho detto. — Sì. — Non l’avrei mai trovata. Non l’avrei salvata. Ho guardato la donna che asciugava il tè e ho pensato che non potevo salvare neppure lei. Enola o il gatto o qualunque altro, smarriti lì tra le scale che non finivano mai e i vicoli ciechi del tempo. Erano già morti da cent’anni, e non si poteva salvarli. Non si può salvare il passato. Sicuramente era quella, la lezione che la facoltà di storia mi aveva mandato a imparare. Benissimo, l’ho imparata. Adesso posso tornare a casa?
No, naturalmente, caro ragazzo. Hai speso stupidamente tutto il tuo denaro in tassì e brandy, e questa è la notte che i tedeschi bruceranno la City. (Adesso che è troppo tardi, ricordo tutto. Ventotto bombe incendiarie sui tetti.) Langby deve avere la sua occasione, e tu devi imparare la lezione più difficile di tutte, quella che avresti dovuto conoscere fin dall’inizio. Non puoi salvare San Paolo.
Sono tornato sulla piattaforma e mi sono fermato dietro la linea gialla, fino a quando si è fermato un treno. Ho tirato fuori il mio biglietto e l’ho tenuto sempre in mano fino alla stazione di San Paolo. Quando sono arrivato, il fumo saliva dietro di me come un pulviscolo d’acqua. Non riuscivo a vedere San Paolo.
— C’è la bassa marea — ha detto una donna, con una voce priva di speranza, e io sono caduto in un groviglio serpentino di tubi di tela floscia. Quando ho sollevato le mani, erano coperte di fango puzzolente e finalmente ho capito, troppo tardi, l’importanza della bassa marea. Non c’era acqua per combattere le fiamme.
Un poliziotto mi ha sbarrato la strada e mi sono fermato davanti a lui, rassegnato, senza sapere che cosa dire. — I civili non sono ammessi lassù — ha detto. — San Paolo è andato. — Il fumo turbinava come un nembo temporalesco, pieno di scintille e al di sopra del fumo la cupola s’innalzava tutta d’oro.
— Sono al servizio antincendio — ho detto, e il poliziotto ha riabbassato le braccia, e sono arrivato sui tetti.
I miei livelli d’endofrina dovevano andare su e giù come la voce delle sirene antiaeree. Da quel momento non ho più ricordi a breve termine, ma soltanto momenti sconnessi: la gente nella chiesa quando abbiamo portato giù Langby, acquattata in un angolo a giocare a carte, il vortice di pezzi di legno incendiati nella cupola, l’autista dell’ambulanza che portava i sandali come Enola e che mi ha spalmato l’unguento sulle mani ustionate. E al centro, l’unico momento chiaro, quando ho raggiunto Langby con una corda e gli ho salvato la vita.
Ero vicino alla cupola e sbattevo le palpebre nel fumo. La City era in fiamme e sembrava che San Paolo dovesse incendiarsi spontaneamente per il calore, o crollare per il frastuono. Bence-Jones era vicino alla torre nord-ovest, e stava prendendo a badilate una bomba incendiaria. Langby era troppo vicino al tratto rappezzato alla meglio sopra il coro, ed era rivolto verso di me. Una bomba incendiaria gli è caduta sulle spalle. Mi sono voltato per afferrare un badile e quando mi sono girato di nuovo lui era sparito.