— Certo che ci sono — ha detto Dunworthy, girando la seconda pagina del questionario. — Numero dei morti e feriti, 1940. Esplosioni, shrapnel, altre cause.
— Altre cause? — Ho chiesto. Da un momento all’altro il tetto mi sarebbe crollato addosso in una pioggia di polvere d’intonaco e di furore. — Altre cause? Langby ha spento un incendio con il suo corpo. Enola ha un raffreddore che continua a peggiorare. Il gatto… — Gli ho strappato dalle mani il foglio e ho scarabocchiato «un gatto» nello spazio accanto a «Esplosioni». — Non gliene importa proprio niente?
— Sono importanti da un punto di vista statistico — ha detto lui. — Ma come individui non hanno importanza per il corso della storia.
I miei riflessi erano andati. Ma mi ha sorpreso constatare che quelli di Dunworthy erano quasi altrettanto lenti. Gli ho scalfito appena la mascella e gli ho fatto schizzar via gli occhiali. — Certo che sono importanti! — ho gridato. — Loro sono la storia, loro e non tutti quei maledetti numeri!
I riflessi degli scagnozzi erano prontissimi. Non mi hanno lasciato il tempo di sferrargli un altro pugno. Mi hanno agguantato per le braccia per trascinarmi fuori.
— Loro sono nel passato, e non c’è nessuno che li salvi. Non riescono a vedersi le mani neppure se le alzano davanti agli occhi, e le bombe gli piovono addosso e lei mi dice che non sono importanti? E vuol raccontarmi d’essere uno storico?
Gli scagnozzi mi hanno trascinato fuori dalla porta, nel corridoio. — Langby ha salvato San Paolo. Una persona può essere più importante di così? Lei non è uno storico! Non è altro che un… — Volevo gridargli un insulto terribile, ma gli unici che mi sono venuti in mente erano quelli che avevo sentito da Langby. — Non è altro che una lurida spia nazista! — ho urlato. — Non è altro che un borghese fannullone!
Mi hanno scaricato carponi fuori dalla porta e me l’hanno sbattuta in faccia. — Non vorrei diventare uno storico neanche se mi pagasse! — ho gridato, e sono andato a vedere la lapide commemorativa del servizio antincendio.
31 dicembre — Questo devo scriverlo a spizzichi e bocconi. Ho le mani malridotte e i ragazzi di Dunworthy non hanno migliorato le cose. Ogni tanto viene Kivrin, con quella sua aria da santa Giovanna, e mi spalma sulle mani tanto unguento che non riesco a tenere una matita.
La stazione di San Paolo non c’è, naturalmente, e così sono sceso a Holborn e ho proseguito a piedi, pensando al mio ultimo incontro con il decano Matthews la mattina dopo che era bruciata la City. Questa mattina.
— Ho saputo che ha salvato la vita di Langby — mi ha detto. — E so che voi due insieme avete salvato San Paolo, stanotte.
Gli ho mostrato la lettera di mio zio e lui l’ha guardata come se non riuscisse a immaginare che cosa fosse. — Nulla è salvato per sempre — ha detto e per un momento terribile ho pensato che stesse per dirmi che Langby era morto. — Dovremo continuare a salvare San Paolo fino a che Hitler non deciderà di bombardare le campagne.
Le incursioni su Londra sono quasi finite. Avrei voluto dirglielo. Hitler comincerà a bombardare le campagne tra poche settimane. Canterbury, Bath, e sempre mirando alle cattedrali. Lei e San Paolo sopravviveranno alla guerra e potranno inaugurare la lapide commemorativa del servizio antincendio.
— Tuttavia ho qualche speranza — ha detto. — Credo che il peggio sia passato.
— Sì, signore. — Ho pensato alla lapide, con la scritta ancora leggibile dopo tanto tempo. No, signore, il peggio non è passato.
Sono riuscito a orientarmi fin quasi sulla cima di Ludgate Hill, e poi ho perso completamente la strada. Vagavo come un uomo in un cimitero. Non avevo ricordato che le macerie erano tanto simili alla polvere bianca dei calcinacci dalla quale aveva cercato di tirare fuori Langby. Non riuscivo a trovare la lapide da nessuna parte. Alla fine per poco non le sono caduto sopra, e sono balzato indietro come se avessi calpestato una tomba.
È tutto ciò che è rimasto. Dicono che a Hiroshima fossero rimasti alcuni alberi intatti al punto zero. A Denver è rimasta la scalinata del Campidoglio. Ma gli uni e l’altra non dicono: «Ricordate gli uomini e le donne del Servizio Antincendi di San Paolo che per grazia di Dio salvarono questa Cattedrale.» Per grazia di Dio.
La lapide è in parte tranciata. Gli storici sostengono che c’era un’altra riga dov’era scritto «per sempre»; ma non lo credo, se il decano Matthews ha avuto la possibilità di dire la sua. E nessuno di quelli del servizio alla quale era dedicata l’avrebbe creduto per un solo istante. Salvavamo San Paolo ogni volta che spegnevamo una bomba incendiaria, e lo salvavamo soltanto fino a quando ne cadeva un’altra. Stavamo di guardia nei punti pericolosi, spegnevamo i piccoli incendi con la sabbia e le pompe a staffa, e quelli grandi li spegnevamo con i nostri corpi, per impedire che l’immensa, complessa cattedrale finisse bruciata. E mi sembra quasi la descrizione della Prova Pratica 401 del Corso di Storia. Proprio il momento migliore per scoprire a cosa servono gli storici, quando ho buttato dalla finestra la possibilità di diventare uno di loro con la stessa facilità con cui hanno buttato dentro la microbomba! No, signore, il peggio non è passato.
Ci sono tracce di un’ombra bruciata sulla lapide, dove secondo la leggenda stava inginocchiato il decano di San Paolo quando la bomba è esplosa. Una leggenda totalmente apocrifa, naturalmente, dato che la porta d’ingresso non è il posto più adatto per pregare. Molto più probabilmente è l’ombra di un turista che era entrato per chiedere dove si trovava il Windmill Theatre, o l’impronta di una ragazza venuta a portare una sciarpa di lana a un volontario. Oppure un gatto.
Nulla è salvato per sempre, decano Matthews; e io lo sapevo quando sono entrato dalla porta ovest quel primo giorno, sbattendo le palpebre nel buio, ma comunque è molto doloroso. Star qui, affondato fino alle ginocchia nelle macerie dalle quali non potrò tirar fuori sedie pieghevoli o qualche amico, sapere che Langby è morto credendo che io fossi una spia nazista, sapere che un giorno Enola è venuta qui e io non c’ero più. È molto doloroso.
Ma è meno doloroso di quanto potrebbe essere. Sono morti tutti e due, e anche il decano Matthews è morto; ma sono morti senza sapere quello che io ho sempre saputo, e che mi ha fatto crollare in ginocchio nella Whispering Gallery, sopraffatto dall’angoscia e dal rimorso: che alla fine nessuno di noi ha salvato San Paolo. E Langby non può girarsi verso di me, stordito e disfatto, e chiedermi: — Chi ha fatto questo? I tuoi amici nazisti? — E io dovrei rispondere: — No. I comunisti. — Questo sarebbe il peggio.
Devo tornare nella mia stanza e lasciare che Kivrin mi spalmi altro unguento sulle mani. Lei vuole che io dorma un po’. So che dovrei fare i bagagli e andarmene. Sarà umiliante, quando verranno a buttarmi fuori, ma non ho la forza di oppormi a lei. Somiglia troppo a Enola.
1° gennaio — A quanto pare ho dormito non soltanto tutta la notte ma anche fin dopo la consegna della posta del mattino. Quando mi sono svegliato, poco fa, ho trovato Kivrin seduta ai piedi del letto. Aveva in mano una busta. — È arrivato il risultato del tuo esame — ha detto.
Mi sono coperto gli occhi con il braccio. — Sanno essere meravigliosamente efficienti quando vogliono, no?
— Sì — ha risposto Kivrin.
— Bene, vediamo — ho detto sollevandomi a sedere. — Quanto tempo mi resta prima che vengano a buttarmi fuori?
Lei mi ha consegnato la leggera busta del computer. L’ho strappato lungo la perforazione. — Aspetta — mi ha detto Kivrin. — Prima di aprirla, voglio dirti una cosa. — Ha posato una mano sulle mie ustioni, delicatamente. — Ti sbagli a giudicare la facoltà di storia. Sono molto in gamba.
Non era esattamente quello che mi aspettavo da lei. — Non è il termine che userei io per descrivere Dunworthy — ho detto, e ho tirato fuori il foglio.