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Kivrin non ha cambiato espressione, neppure quando sono rimasto lì con il printout sulle ginocchia dove lei poteva vederlo sicuramente.

— Bene — ho detto.

Il foglio era firmato dallo stimato Dunworthy. Avevo preso il massimo dei voti. E lode.

2 gennaio — Oggi sono arrivate due cose, per posta. Una era l’assegnazione per Kivrin. La facoltà di storia pensa a tutto… persino a tenerla qui abbastanza a lungo per farmi da infermiera, persino a realizzare prove del fuoco prefabbricate alle quali sottoporre i loro laureandi.

Penso che vorrei credere che avevano fatto proprio questo. Enola e Langby erano attori scritturati apposta, il gatto un robot ingegnoso al quale avevano tolto il meccanismo interno per creare l’effetto finale: non tanto perché volevo credere che Dunworthy non fosse affatto in gamba, ma perché allora non avrei avuto quella sofferenza assillante al pensiero di non sapere cos’era stato di loro.

— Mi hai detto che la tua prova pratica era nell’Inghilterra del 1300? — ho chiesto, guardando Kivrin sospettosamente come avevo guardato Langby.

— 1349 — ha detto lei, e il suo viso si è oscurato al ricordo. — L’anno della peste.

— Mio Dio — ho detto. — Come hanno potuto fare una cosa simile? La peste è un dieci, come pericolosità.

— Io ho un’immunità naturale — ha risposto lei, guardandosi le mani.

Dato che non sapevo cosa dire, ho aperto l’altra busta. Era un rapporto su Enola. Stampato dal computer, fatti e date e statistiche, tutti i numeri così cari alla facoltà di storia; ma mi diceva quello che credevo che avrei dovuto rinunciare a sapere: che era guarita dal raffreddore ed era sopravvissuta al Blitz. Il giovane Tom era rimasto ucciso a Bath in un bombardamento, ma Enola era vissuta fino al 2006, l’anno prima che facessero saltare San Paolo.

Non so se devo credere o no al rapporto, ma non ha importanza. È come quando Langby leggeva a voce alta per il vecchio, un semplice gesto di gentilezza umana. Pensano proprio a tutto.

No, non a tutto. Non mi hanno detto che è stato di Langby. Ma mentre scrivo questo, credo di saperlo già: gli ho salvato la vita. Sembra che non abbia importanza se anche è morto all’ospedale il giorno dopo; e nonostante tutte le dure lezioni che la facoltà di storia ha cercato d’insegnarmi, non credo completamente a questa: che nulla è salvato per sempre. A me sembra che forse Langby lo sia.

3 gennaio — Oggi sono andato a vedere Dunworthy. Non so che cosa avessi intenzione di dire… qualche frase pomposa sulla mia disponibilità a prestare la mia opera nel servizio antincendio della storia, a montare la guardia contro le bombe incendiarie del cuore umano, in silenzio e santamente.

Ma lui ha battuto gli occhi da miope, guardandomi, e mi è sembrato che guardasse quell’ultima immagine fulgida di San Paolo nella luce del sole prima che sparisse per sempre, e sapesse meglio di chiunque altro che il passato non può venire salvato. E così ho detto, invece: — Mi dispiace di averle rotto gli occhiali, signore.

— Le è piaciuto San Paolo? — mi ha chiesto, e come al mio primo incontro con Enola ho avuto l’impressione di aver capito i segnali nel modo sbagliato, e che lui non provasse un senso di perdita, ma qualcosa di completamente diverso.

— Moltissimo, signore — ho risposto.

— Sì — ha detto lui. — Anche a me.

Il decano Matthews si sbaglia. Ho lottato con la memoria durante tutta la mia prova pratica soltanto per scoprire che non è affatto la nemica, e che essere uno storico non è, dopotutto, un santo onore. Perché Dunworthy non sta battendo le palpebre nella fatale luce del sole dell’ultimo mattino, ma nel buio di quel primo pomeriggio, e guarda all’interno della grande porta ovest di San Paolo qualcosa che, come Langby, come tutto, come ogni momento, è salvato per sempre dentro di noi.