Questo cruccio lo portò un giorno a curiosare nei pressi di una delle casette più vicine, donde veniva un curioso ticchettio.
" Ma prego, caro, entra, quella poltrona è abbastanza comoda. Scusa se finisco di sistemare un lavoretto, poi sono subito da te " gli disse il collega cordialmente. Passò quindi nella stanza accanto dove con velocità stupefacente dettò a uno stenografo una dozzina di lettere e vari ordini di servizio; che il segretario si affrettò a battere a macchina: Dopodiché tornò da Gancillo: " Eh, caro mio, senza un minimo d'organizzazione sarebbe un affare serio, con tutta la posta che arriva. Se adesso vieni di là, ti faccio vedere il mio nuovo schedario elettronico, a schede perforate ". Insomma fu molto gentile.
Di schede perforate non aveva certo bisogno Gancillo che se ne tornò alla sua casetta piuttosto mogio. E pensava: " possibile che nessuno abbia bisogno di me? E sì che potrei rendermi utile. Se per esempio facessi un piccolo miracolo per attirare l'attenzione? "
Detto fatto, gli venne in mente di far muovere gli occhi al suo ritratto, nella chiesa del paese. Dinanzi all'altare di San Gancillo non c'era mai nessuno, ma per caso si trovò a passare Memo Tancia, lo scemo del paese, il quale vide il ritratto che roteava gli occhi e si mise a gridare al miracolo.
Contemporaneamente, con la fulminea velocità loro consentita dalla posizione sociale, due tre santi si presentarono a Gancillo e con molta bonarietà gli fecero intendere ch'era meglio lui smettesse: non che ci fosse niente di male, ma quei tipi di miracolo, per una certa loro frivolezza, non erano molto graditi in alto loco. Lo dicevano senza ombra di malizia, ma è possibile gli facesse specie quell'ultimo venuto il quale eseguiva lì per lì, con somma disinvoltura, miracoli che a loro invece costavano una fatica maledetta.
San Gancillo naturalmente smise e giù al paese la gente accorsa alle grida dello scemo esaminò a lungo il ritratto senza rilevarvi nulla di anormale. Per cui se ne andarono delusi e poco mancò che Memo Tancia si prendesse un sacco di legnate.
Allora Gancillo pensò di richiamare su di sé l'attenzione degli uomini con un miracolo più piccolo e poetico. E fece sbocciare una bellissima rosa dalla pietra della sua vecchia tomba ch'era stata riattata per la beatificazione ma adesso era di nuovo in completo abbandono. Ma era destino che egli non riuscisse a farsi capire. Il cappellano del cimitero, avendo visto, si affrettò dal becchino e lo sollevò di peso. " Almeno alla tomba di San Gancillo potresti badarci, no? È una vergogna, pelandrone che non sei altro. Ci son passato adesso e l'ho vista tutta piena di erbacce. " E il becchino si affrettò a strappare via la pianticella di rosa.
Per tenersi sul sicuro, Gancillo quindi ricorse al più tradizionale dei miracoli. E al primo cieco che passò davanti al suo altare, gli ridonò senz'altro la vista.
Neppure questa volta gli andò bene. Perché a nessuno venne il sospetto che il prodigio fosse opera di Gancillo, ma tutti lo attribuirono a San Marcolino che aveva l'altare proprio accanto. Tale fu anzi l'entusiasmo, che presero in spalla la statua di Marcolino, la quale pesava un paio di quintali, e la portarono in processione per le strade del paese al suono delle campane. E l'altare di San Gancillo rimase più che mai dimenticato e deserto.
Gancillo a questo punto si disse: meglio rassegnarsi, si vede proprio che nessuno vuole ricordarsi di me. E si sedette sul balcone a rimirare l'oceano, che era in fondo un grande sollievo.
Era lì che contemplava le onde, quando si udì battere alla porta. Toc toc. Andò ad aprire. Era nientemeno che Marcolino in persona il quale voleva giustificarsi.
Marcolino era un magnifico pezzo d'uomo, esuberante e pieno di allegria: " Che vuoi farci, caro il mio Gancillo? Io proprio non ne ho colpa. Sono venuto, sai, perché non vorrei alle volte tu pensassi… ".
" Ma ti pare " fece Gancillo, molto consolato da quella visita, ridendo anche lui.
" Vedi? " disse ancora Marcolino. " Io sono un tipaccio, eppure mi assediano dalla mattina alla sera. Tu sei molto più santo di me, eppure tutti ti trascurano. Bisogna aver pazienza, fratello mio, con questo mondaccio cane " e dava a Gancillo delle affettuose manate sulla schiena.
" Ma perché non entri? Fra poco è buio e comincia a rinfrescare, potremmo accendere il fuoco e tu fermarti a cena. "
" Con piacere, proprio col massimo piacere " rispose Marcolino
Entrarono, tagliarono un po' di legna e accesero il fuoco, con una certa fatica veramente, perché la legna era ancora umida. Ma soffia soffia, alla fine si alzò una bella fiammata. Allora sopra il fuoco Gancillo mise la pentola piena d'acqua per la zuppa e, in attesa che bollisse, entrambi sedettero sulla panca scaldandosi le ginocchia e chiacchierando amabilmente. Dal camino cominciò a uscire una sottile colonna di fumo, e anche quel fumo era Dio.
56. IL CRITICO D'ARTE
Nella 622esima sala della Biennale il noto critico Paolo Malusardi sostò perplesso. Era una personale di Leo Squittinna, una trentina di quadri apparentemente tutti uguali, formati da un reticolo di linee perpendicolari tipo Mondrian, solo che in questo caso il fondo aveva colori accesi e nell'inferriata, per così dire, i tratti orizzontali, molto più grossi di quelli verticali, qua e là diventavano più fitti, il che dava un senso di pulsazione, di stretta, di crampo, come quando nelle digestioni difficili qualcosa si ingorga nello stomaco e duole, per poi sciogliersi nel giusto andamento viscerale.
Con le code degli occhi, il critico si accertò di non avere testimoni. Completamente solo. Nel pomeriggio torrido i visitatori erano stati pochi e quei pochi già sfollavano. Tra breve si sarebbe chiuso.
Squittinna? Il critico cercò nella memoria. Una personale a Roma, tre anni prima, se non si sbagliava. Ma a quel tempo il pittore dipingeva ancora cose: figure umane, paesaggi, vasi e pere, secondo la putrefatta tradizione. Di più non ricordava.
Cercò nel catalogo. La lista dei quadri esposti era preceduta da una breve introduzione di un ignoto Ermanno Lais. Diede una occhiata: le solite parole. Squittinna, Squittinna, ripeté sommessamente. Il nome gli richiamava qualche cosa di recente. Ma il ricordo al momento gli sfuggiva. Ah sì. Due giorni prima, gliene aveva parlato il Tamburini, un gobbetto immancabile in tutte le grandi mostre d'arte, un manìaco che sfogava all'ombra dei pittori le sue fallite aspirazioni, un rompiscatole, attaccabottoni temutissimo. Tuttavia infallibile, data la lunga e disinteressata pratica, nel percepire, anzi nel presentire il fenomeno di cui i giornali a rotocalco, due anni dopo, avrebbero dedicato con l'avallo della critica ufficiale, intere pagine a colori. Ebbene, questo Tamburini, vero furetto delle arti belle, due sere prima, a un tavolino del Florian, aveva lungamente perorato, senza che i presenti gli badassero, a favore appunto dello Squittinna, L'unica grande rivelazione, sosteneva, della Biennale veneziana, la sola personalità che " emergesse dalla palude (testuali parole) del conformismo non figurativo ".
Squittinna, Squittinna, strano nome. Il critico passò in rassegna mentalmente i cento e più articoli dei colleghi pubblicati fino allora sulla mostra. Nessuno aveva dedicato allo Squittinna più di due o tre righe. Squittinna era passato inosservato. Terreno dunque vergine. Per lui, critico ormai di prima linea, poteva essere un'ottima occasione.
Guardò più attentamente. Certo, quelle nude geometrie per commuoverlo, non lo commuovevan di sicuro. Diciamo pure, non gliene importava un fico secco. Eppure poteva esserci uno spunto. Chissà, il destino riservava a lui l'invidiabile compito di rivelare un nuovo grande artista.