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Guardò di nuovo i quadri. Sbilanciarsi in favore di Squittinna – si domandò – sarebbe stato un rischio? Qualche collega gli avrebbe potuto rinfacciare d'aver commesso una scandalosa gaffe? Assolutamente no. Erano così essenziali, quelle tele, così nude, così lontane da qualsiasi possibile diletto dei volgari sensi, che un critico, lodandole, si sarebbe trovato in una botte di ferro. Senza contare l'ipotesi – perché escluderlo a priori? – che là dentro ci fosse veramente un genio destinato a far parlare di sé per lunghi anni e a riempire di quadricromie parecchi volumi di Skira.

Così rincuorato, con la prospettiva di scrivere un articolo che avrebbe fatto spasimare d'invidia i suoi colleghi per la rabbia di essersi lasciata sfuggire una preda così ghiotta, egli fece un lieve esame di coscienza. Che cosa si poteva dire di Squittinna? In determinate, e rare, condizioni favorevoli, il critico riusciva almeno a essere sincero con se stesso. E si rispose. " Potrei dire che Squittinna è un astrattista. Che i suoi quadri non vogliono rappresentare niente. Che il suo linguaggio è un puro gioco geometrico di spazi quadrilateri e di linee che li chiudono. Ma spera di farsi perdonare il manifesto plagio di Mondrian con una innovazione spiritosa: fare grosse le linee orizzontali e sottili quelle verticali, e variare tale ispessimento così da ottenere un curioso effetto: come se la superficie del quadro non fosse piana bensì a onde rilevate. Un trompe l'oeil astrattista insomma… "

" Perbacco, è una magnifica trovata " disse a se stesso il critico " va là che non sei del tutto idiota. " A questo punto fu colto da un brivido, come chi passeggiando spensieratamente d'un sùbito si avvede di procedere sull'orlo di un abisso. Se avesse manifestato sulla carta quelle idee, semplicemente, tali e quali, come gli erano venute in mente, che cosa mai si sarebbe detto di lui in giro, ai tavolini del Florian, in via Margutta, alla Sovrintendenza, nei caffè di via Brera? Al pensiero, sorrise. No, no, grazie a Dio il mestiere lo conosceva a fondo. Per ogni cosa c'è il linguaggio adatto e nel linguaggio che si addice alla pittura lui era ferratissimo. Sì e no, c'era solo il Poltergeister che potesse stargli alla pari. Sugli spalti dell'avanguardismo critico lui, Malusardi, era forse il più in vista di tutti, il più temuto.

Un'ora dopo, nella camera d'albergo, con dinanzi il catalogo della Biennale aperto alla sala di Squittinna, e una bottiglia d'acqua minerale, fumando una sigaretta dopo l'altra, scriveva:

"…al quale (Squittinna) sarebbe oltremodo faticoso disconoscere, pur sotto il voluto peso di inevitabili e fin troppo ovvii apparentamenti stilistici, un irrigidimento, per non dire infrenabile vocazione, verso ascetismi formali che, senza rifiutare le suggestioni della casualità dialettica, amano ribadire una stretta misura dell'atto rappresentativo, o meglio evocativo, quale perentoria imposizione ritmica secondo uno schedario di filtratissime prefigurazioni… "

E come esprimere con un minimo di decenza esoterica il banale concetto di trompe l'oeil? Ecco, per esempio:

" Ma qui appunto si precisa come la meccanica mondrianiana a lui si presti solo nel limite di un termine di trapasso da nozione a coscienza della realtà, dove questa sarà sì rappresentata nella sua prontezza fenomenica più esigente, ma, grazie a un puntuale astrarsi, si amplierà in una surrogazione operazionale di più vasta e impervia portata… "

Rilesse due volte, scosse il capo, cancellò " infrenabile vocazione ", inserì, dopo " ribadire ", la precisazione " con inusitata pregnanza ", rilesse altre due volte, scosse di nuovo il capo, sollevò la cornetta del telefono, chiese la comunicazione con il bar, ordinò un doppio whisky, giacque sulla poltrona assorto in pensieri tortuosi. Non era soddisfatto. Chissà forse il whisky gli avrebbe dato la vagheggiata ispirazione.

Gliela diede. In un baleno. Ma se – fu la domanda che egli rivolse a se stesso d'improvviso – se dalla poesia ermetica è germinata quasi per necessità una critica ermetica non era giusto che dall'astrattismo nascesse una critica astrattista? Rabbrividì quasi, misurando confusamente gli sviluppi di una così audace concezione. Un vero colpo d'ala. Semplicissimo, eppur difficile come tutte le cose semplici. Tanto è vero che nessuno ci aveva mai pensato. E lui sarebbe stato il caposcuola. In pratica non restava che da trasferire sulla pagina la tecnica finora adottata sulle tele. Con una certa titubanza sulle prime, come chi prova un meccanismo ignoto, quindi rinfrancandosi, via via che le parole si accavallavano l'una sull'altra, infine con incalzante orgoglio, scrisse:

"…al quale (Squittinna) sul mentre perciocché nel contrappunto di una strategia testimoniale, si reperisce il nesso di riscatto dal consunto pedissequo relazionamento realtà realtà fra i postulati additivi. Sintomo esplicito di un farsi. E l'inquieto immergersi in un momento fatale dunque, da cui i moduli consumerebbero l'apparenza di una sostanza efficiente, così avvertita e sensibile da consumare i termini in sopravvivenza peculiare di poesia. "

Si arrestò, ansando. Febbricitava. Rilesse ansiosamente. No, non c'era ancora. La forza d'inerzia delle vecchie abitudini tendeva a riportarlo indietro, a un linguaggio ormai troppo risaputo. Anche le ultime catene bisognava infrangere, per conquistare una sostanziale libertà. Si gettò a capofitto.

" Il pittrore " scrisse, padroneggiato da un incalzante raptus " di del dal col affioriccio ganolsi coscienziamo la simileguarsi. Recusia estemesica! Altrinon si memocherebbe il persuo stisse in corisadicone elibuttorro. Ziano che dimannuce lo qualitare rumelettico di sabirespo padronò. E sonfio tezio e stampo egualiterebbero nello Squittinna il trilismo scernosti d'ancomacona percussi. Tambron tambron, quilera dovressimo, ghiendola namicadi coi tuffro fulcrosi, quantano, sul gicla d'nogiche i metazioni, gosibarre, che piò levapo si su predomioranzabelusmetico, rifè comerizzando per rerare la biffetta posca o pisca. Verè chi… "

Era già buio quando prese fiato. Si sentiva sfinito e rotto, quasi avesse preso un sacco di legnate. Ma felice. Quindici fogli di fitta scrittura giacevano sparpagliati attorno. Li raccolse. Li rilesse centellinando l'ultimo whisky del fondo del bicchiere. Alla fine improvvisò una danza di vittoria. Per il demonio, questo sì, era genio.

Sdraiata mollemente sul divano, Fabrizia Smith-Lombrassa, ragazza aggiornatissima o per dirla più elegantemente " assai avvertita ", leggeva avidamente il saggio critico. A un tratto scoppiò in una risata. " Senti, senti, Diomeda, che tesoro " disse volgendosi all'amica " senti come gliela canta, il Malusardi, a quei poveri figurativi… Rifè comerizzando per rerare la biffetta posca o pisca! "

Risero di gusto entrambe.

" Spiritoso, niente da dire " approvò Diomeda. " Ah, io l'adoro, il Malusardi. È un formidabile! "

57. UNA PALLOTTOLA DI CARTA

Erano le due di notte quando Francesco e io, per caso ma era davvero un caso? – passammo dinanzi al numero 37 di viale Calzavara, dove abita il poeta.

Come è giusto e simbolico, il celebre poeta abita all'ultimo piano della grande casa, alquanto squallida. Quando ci fummo sotto, entrambi, senza dire una parola, guardammo in su, sperando. Ed ecco, la facciata del tetro falansterio era completamente buia, ma in alto, là dove l'ultima cornice sfumava nel cielo delle nebbie, una finestra, sola, appariva illuminata da un fioco lume. Al paragone del resto, al paragone dell'umanità che dormiva bestialmente, in contrasto con il nero schieramento di finestre sprangate, avare e cieche, come trionfalmente risplendeva!

Sarà logora romanticheria, ma ci consolò il sapere che mentre gli altri erano sprofondati nel tetro sonno, lassù, alla luce di una solitaria lampada, lui stesse poetando. Questa era infatti l'ora remota e massima, il profondo recesso della notte dove nascono i sogni, e l'anima, se può, si libera dei dolori accumulati, spaziando sopra i tetti e le caligini del mondo, cercando le parole misteriose che domani soccorrendo la grazia, trapaneranno i cuori della gente, inducendola a pensare cose grandi. Sarebbe infatti mai possibile che i poeti lavorassero, poniamo, alle dieci del mattino, con la barba appena fatta, dopo un'abbondante colazione?