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Mentre stavamo intenti con la faccia volta in su, e confusi pensieri ci attraversavano la mente, qualcosa, come un'ombra, si agitò all'improvviso nel riquadro della finestra illuminata e un oggetto piovve, con molle volo, su di noi. Prima che toccasse terra, al riverbero del prossimo lampione, si rivelò per una pallottola di carta. Rimbalzò sul marciapiede.

Era un messaggio diretto a noi o quanto meno un appello al passante sconosciuto che per primo lo trovasse come quelli che i naufraghi delle isole deserte chiudono in bottiglia e affidano alle onde dell'oceano?

Questo il primo pensiero che ci venne. O per caso il poeta si sentiva male e, non essendoci nessuno in casa, chiamava aiuto? O addirittura dei banditi erano penetrati nella sua stanza, e quella era una suprema invocazione?

Insieme ci chinammo per raccogliere la carta. Io fui più lesto. " Cos'è? " chiese il mio amico. Sotto il lampione, stavo già spiegando il foglio.

Non era un foglio accartocciato. Non era un'invocazione di soccorso. La realtà era più semplice e banale. O forse più enigmatica. Fra le mani mi trovai un involto di pezzetti di carta, su cui notai brandelli di parole. Evidentemente il poeta, dopo avere scritto, era stato preso dalla delusione, o dalla rabbia, aveva stracciato il foglio in cento pezzi, ne aveva fatto una pallottola e l'aveva scaraventata nella via.

" Non buttare " disse subito Francesco " forse è una bellissima poesia. Con un po' di pazienza possiamo rimettere insieme i pezzi. "

" Se fosse bellissima non l'avrebbe buttata, sta' pur sicuro. Se l'ha buttata vuol dire che si è pentito, che non gli piace, che non la riconosce come sua. "

" Si vede che tu non lo conosci. I suoi versi più famosi sono stati salvati dagli amici che gli stavano alle costole. Lui voleva distruggerli. È incontentabile. " " E poi " io dico " è vecchio, sono anni che non fa più poesie. " " Sì che ne fa, soltanto non le pubblica, perché non è mai contento. "

" Bene. E se invece di una poesia " io dissi " fosse semplicemente un appunto, una lettera a un amico, o addirittura una nota delle spese? "

" A quest'ora? "

" Certo. A quest'ora. I poeti, immagino, fanno anche i conti alle due di notte. "

Ma io intanto serrai le mani, premendo di nuovo i brandelli di carta insieme, e me li misi in una tasca della giacca.

Nonostante le proteste di Francesco, non ho più separato quei frammenti, non li ho distesi su di un tavolo, non ho tentato di ricomporre il foglio e di leggere ciò che c'era scritto. La pallottola di carta, pressapoco nelle condizioni in cui l'ho tratta da terra, è chiusa in un cassetto, e vi rimane.

Non è da escludere che il mio amico abbia ragione e che il grande poeta sia solito pentirsi di ciò che ha appena fatto e per questa sua smania di perfezione distrugga anche versi che altrimenti diventerebbero immortali. Può darsi che le parole da lui scritte quella notte formino un'armonia divina che siano la cosa più potente e pura che sia mai stata fatta al mondo.

Ma bisogna anche tener conto di altre ipotesi: che si tratti di una carta insignificante; che sia, come dicevo sopra, un volgarissimo appunto di fatti domestici: che a scrivere sul foglio, e a lacerarlo, non sia stato il poeta, ma un familiare o una persona di servizio (quel poco che ho visto della calligrafia non mi consente una identificazione); oppure che sia veramente una poesia, ma brutta; o addirittura, non possiamo escluderlo, che noi ci siamo sbagliati e che la finestra accesa non fosse quella del poeta bensì di un altro appartamento, nel quale caso il lacerato manoscritto sarebbe niente più che carta straccia.

Non sono tuttavia queste supposizioni negative a distogliermi dal ricostruire il foglio. Anzi. Le circostanze notturne del ritrovamento, la persuasione, forse gratuita, che un arcano disegno disponga, più spesso di quanto noi pensiamo, i fatti della vita che in apparenza sembrano dipendere da un cieco caso, l'idea quindi che sia stata una sorta di provvidenza, di sapiente destino a farci capitare là, Francesco ed io, proprio quella notte, proprio in quell'ora, affinché potessimo raccogliere un tesoro che altrimenti sarebbe andato perso; tutto questo, con la potente suggestione degli argomenti basati sull'irrazionale, mi ha convinto che nella raminga pallottola di carta sia contenuto un segreto enorme: versi di una bellezza sovrumana, intendo, che il poeta fu indotto a distruggere dall'amara certezza di non poter mai più salire tanto in alto, (infatti l'artista il quale toccato il culmine della sua parabola, fatalmente discende è tratto a odiare tutto ciò che ha fatto prima e che gli parla di una felicità persa per sempre).

Con tale certezza, io preferisco mantenere intatta la preziosa sorpresa chiusa nell'involto, tenerla in serbo per un vago futuro. E come nella vita l'attesa di un bene certo ci dà più gioia che il raggiungerlo (ed è saggio non approfittarne subito, ma conviene assaporare quella meravigliosa specie di desiderio che è il desiderio sicuro di essere appagato ma non ancora praticamente soddisfatto, l'attesa insomma che non ha più timori e dubbi e che rappresenta probabilmente l'unica forma di felicità concessa all'uomo) come la primavera, che è una promessa, rallegra gli uomini più dell'estate che ne è il compimento sospirato, così il pregustare con la fantasia lo splendore del poema ignoto, equivale, anzi supera il godimento artistico della diretta e profonda conoscenza. Si dirà che questo è un gioco della immaginazione un po' troppo disinvolto, che così si apre la porta alle mistificazioni e ai bluffs. Eppure, se ci si guarda indietro, constatiamo che le più dolci e acute gioie non hanno mai avuto un più solido costrutto.

Del resto, che stia qui il mistero della poesia, espresso in uno dei suoi esempi estremi? Può darsi infatti ch'essa non abbia bisogno di tenere un linguaggio aperto e universalmente comprensibile, né di avere un senso logico, né che le sue parole formino delle frasi articolate, o esprimano dei ragionevoli concetti. Ancora: le parole, come nel nostro caso, possono essere divise in brani e confusamente mescolate in un intrico di sillabe. Di più: per goderne l'incanto, percepirne la potenza, è persino superfluo leggerle. Basta dunque guardarle, basta il contatto, la vicinanza fisica? Forse è così. L'importante, soprattutto, è credere che in quel libretto, in quella pagina, in quei versi, in quei segni, ci sia un capolavoro (vedi Leopardi, Zibaldone: " Il bello in grandissima parte non è tale, se non perché tale si stima "). Io, per esempio, quando apro il cassetto e stringo in mano la descritta pallottola di carta dove si presume sia celato, in un groviglio di lacerti, un abbozzo di poesia, sarà la forza della suggestione, ma d'incanto mi sento più contento, più vivo, più leggero, intravedo una luce di magnificenza spirituale, e dall'estremo orizzonte lentamente cominciano ad avanzare verso di me le montagne, le solitarie montagne! (E magari, là dentro, non c'è che la minuta di una lettera anonima per la rovina di un collega.)

58. LA PESTE MOTORIA

Un mattino di settembre, nel garage Iride di via Mendoza – per caso ero presente – entrò un'auto grigia di marca esotica e di forma inusitata, con una targa straniera che non si era vista mai.

Il padrone, io, il vecchio capo meccanico Celada, mio ottimo amico, e gli altri operai, eravamo tutti di là nell'officina. Ma attraverso una vetrata il grande salone dei posteggi era visibile.