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Ora si capiva perché prima non aveva voluto rientrare nella tana, dove pure avrebbe trovato scampo, perché non aveva emesso alcun grido o ruggito, limitandosi a qualche sibilo. Il drago pensava ai due figli e per risparmiarli aveva rifiutato la propria salvezza; se si fosse infatti nascosto nella caverna, gli uomini lo avrebbero inseguito là dentro, scoprendo i suoi nati; e se avesse levato la voce, le bestiole sarebbero corse fuori a vedere. Solo adesso che li aveva visti morire, il mostro mandava il suo urlo di inferno.

Invocava un aiuto il drago, e chiedeva vendetta per i suoi figli. Ma a chi? alle montagne forse, aride e disabitate? al cielo senza uccelli né nuvole, agli uomini che lo stavano suppliziando, al demonio forse? L'urlo trapanava le muraglie di roccia e la cupola del cielo, riempiva l'intero mondo. Sembrava impossibile (anche se non c'era alcun ragionevole motivo) sembrava impossibile che nessuno gli rispondesse. " Chi chiamerà? " domandò l'Andronico tentando inutilmente di fare scherzosa la propria voce. " Chi chiama? Non c'è nessuno che venga, mi pare? " " Oh, che muoia presto! " disse la donna. Ma il drago non si decideva a morire, sebbene il conte Gerol, accecato dalla smania di finirla, gli sparasse contro con la carabina. Tan! Tan! Era inutile. Il drago accarezzava con la lingua le bestiole morte; pur con moto sempre più lento, un sugo biancastro gli sgorgava dall'occhio illeso. " Il sauro! " esclamò il professor Fusti. " Guarda che piange! " Il governatore disse: " È tardi. Basta, Martino, è tardi, è ora di andare ".

Sette volte si levò al cielo la voce del mostro, e ne rintronarono le rupi e il cielo. Alla settima volta parve non finire mai, poi improvvisamente si estinse, piombò a picco, sprofondò nel silenzio. Nella mortale quiete che seguì si udirono alcuni colpi di tosse. Tutto coperto di polvere, il volto trasfigurato dalla fatica, dall'emozione e dal sudore, il conte Martino, gettata tra i sassi la carabina, attraversava il cono di sfasciumi tossendo, e si premeva una mano sul petto.

" Che cosa c'è adesso? " domandò l'Andronico con volto serio per presentimento di male. " Che cosa ti sei fatto? " " Niente " fece il Gerol sforzando a giocondità il tono della voce. " Mi è andato dentro un po' di quel fumo. " " Di che fumo? " Gerol non rispose ma gli fece segno con la mano al drago. Il mostro giaceva immobile, anche la testa si era abbandonata fra i sassi; si sarebbe detto ben morto, senza quei due sottili pennacchi di fumo. " Mi pare che sia finita " disse l'Andronico. Così infatti sembrava. L'ostinatissima vita stava uscendo dalla bocca del drago.

Nessuno aveva risposto al suo grido, in tutto il mondo non si era mosso nessuno. Le montagne se ne stavano immobili, anche le piccole frane si erano come riassorbite, il cielo era limpido, neppure una minuscola nuvoletta e il sole andava calando. Nessuno, né bestia né spirito, era accorso a vendicare la strage. Era stato l'uomo a cancellare quella residua macchia del mondo, l'uomo astuto e potente che dovunque stabilisce sapienti leggi per l'ordine, l'uomo incensurabile che si affatica per il progresso e non può ammettere in alcun modo la sopravvivenza dei draghi, sia pure nelle sperdute montagne. Era stato l'uomo ad uccidere e sarebbe stato stolto recriminare.

Ciò che l'uomo aveva fatto era giusto, esattamente conforme alle leggi. Eppure sembrava impossibile che nessuno avesse risposto alla voce estrema del drago. Andronico, così come sua moglie e i cacciatori, non desiderava altro che fuggire; persino i naturalisti rinunciarono alle pratiche dell'imbalsamazione, pur di andarsene presto lontani.

Gli uomini del paese erano spariti, come presentissero maledizione. Le ombre salivano su per le pareti crollanti. Dal corpo del drago, carcame incartapecorito, si levavano ininterrotti i due fili di fumo e nell'aria stagnante si attorcigliavano lentamente. Tutto sembrava finito, una triste cosa da dimenticare e nient'altro. Ma il conte Gerol continuava a tossire, a tossire. Sfinito, sedeva sopra un pietrone, accanto agli amici che non osavano parlargli. Anche la intrepida Maria guardava da un'altra parte. Si udivano solo quei brevi colpi di tosse. Inutilmente Martino Gerol cercava di dominarli; una specie di fuoco colava nell'interno del suo petto sempre più in fondo. " Me la sentivo " sussurrò il governatore Andronico alla moglie che tremava un poco. " Me la sentivo che doveva finire malamente. "

8. UNA COSA CHE COMINCIA PER ELLE

Arrivato al paese di Sisto e sceso alla solita locanda, dove soleva capitare due tre volte all'anno, Cristoforo Schroder, mercante in legnami, andò subito a letto, perché non si sentiva bene. Mandò poi a chiamare il medico dottor Lugosi, ch'egli conosceva da anni. Il medico venne e sembrò rimanere perplesso. Escluse che ci fossero cose gravi, si fece dare una bottiglietta di orina per esaminarla e promise di tornare il giorno stesso.

Il mattino dopo lo Schroder si sentiva molto meglio, tanto che volle alzarsi senza aspettare il dottore. In maniche di camicia stava facendosi la barba quando fu bussato all'uscio. Era il medico. Lo Schroder disse di entrare. " Sto benone stamattina " disse il mercante senza neppure voltarsi, continuando a radersi dinanzi allo specchio. " Grazie di essere venuto, ma adesso potete andare. " " Che furia, che furia! " disse il medico, e poi fece un colpettino di tosse a esprimere un certo imbarazzo. " Sono qui con un amico, questa mattina. "

Lo Schroder si voltò e vide sulla soglia, di fianco al dottore, un signore sulla quarantina, solido, rossiccio in volto e piuttosto volgare, che sorrideva insinuante. Il mercante, uomo sempre soddisfatto di sé e solito a far da padrone, guardò seccato il medico con aria interrogativa.

" Un mio amico " ripeté il Lugosi " Don Valerio Melito. Più tardi dobbiamo andare insieme da un malato e così gli ho detto di accompagnarmi. " " Servitor suo " fece lo Schroder freddamente. " Sedete, sedete. "

" Tanto " proseguì il medico per giustificarsi maggiormente " oggi, a quanto pare, non c'è più bisogno di visita. Tutto bene, le orine. Solo vorrei farvi un piccolo salasso. " " Un salasso? E perché un salasso? " " Vi farà bene " spiegò il medico. " Vi sentirete un altro, dopo. Fa sempre bene ai temperamenti sanguigni. E poi è questione di due minuti. "

Così disse e trasse fuori dalla mantella un vasetto di vetro contenente tre sanguisughe. L'appoggiò ad un tavolo e aggiunse: " Mettetevene una per polso. Basta tenerle ferme un momento e si attaccano subito. E vi prego, di fare da voi. Cosa volete che vi dica? Da vent'anni che faccio il medico, non sono mai stato capace di prendere in mano una sanguisuga ".

" Date qua " disse lo Schroder con quella sua irritante aria di superiorità. Prese il vasetto, si sedette sul letto e si applicò ai polsi le due sanguisughe come se non avesse fatto altro in vita sua.

Intanto il visitatore estraneo, senza togliersi l'ampio mantello, aveva deposto sul tavolo il cappello e un pacchetto oblungo che mandò un rumore metallico. Lo Schroder notò, con un senso di vago malessere, che l'uomo si era seduto quasi sulla soglia come se gli premesse di stare lontano da lui. " Don Valerio, voi non lo immaginate, ma vi conosce già " disse allo Schroder il medico, sedendosi pure lui, chissà perché, vicino alla porta.

" Non mi ricordo di aver avuto l'onore " rispose lo Schroder che, seduto sul letto, teneva le braccia abbandonate sul materasso, le palme rivolte in su, mentre le sanguisughe gli succhiavano i polsi. Aggiunse: " Ma dite, Lugosi, piove stamattina? Non ho ancora guardato fuori. Una bella seccatura se piove, dovrò andare in giro tutto il giorno. " " No, non piove " disse il medico senza dare peso alla cosa. " Ma don Valerio vi conosce davvero, era ansioso di rivedervi. " " Vi dirò " fece il Melito con voce spiacevolmente cavernosa. " Vi dirò: non ho mai avuto l'onore di incontrarvi personalmente, ma so qualche cosa di voi che certo non immaginate. "