Proprio così: attraverso i resti del vecchio canneto, il bestione è stato visto compiere una specie di capriola e rotolarsi in furore. " Macché " fa il mio compagno. " Non vedi che scappa? "
Fugge infatti il cinghiale, con la zampa posteriore destra spezzata. Assume un piccolo trotto ostinato, in direzione di est, allontanandosi dal sole morente, quasi timoroso di questa siderale allusione. E il mostro metallico riprende il mugolìo di prima, si mette a corrergli dietro, né guadagnando né perdendo terreno, per via di certi ciuffi di erba morta che ostacolano il cammino.
Ora lui è solo e perduto. Né dal cielo vuoto, né dagli ermetici termitai, né da alcuna parte della terra potrà venire il soccorso. La sua ombra personale lo precede, trottando di conserva, sempre più mostruosa ed ambigua; ma oramai essa non serve, l'orgoglio di poco fa gocciola fuori, col sangue, dalla ferita, e resta seminato per via.
Ed ecco, ma quanto lontana, al limite di congiunzione fra terra e cielo, mentre la luce lentamente declina, ecco una striscia scura, le acacie spinose, il fiume. Laggiù sono gli altri, lui lo sa bene, tutta la patriarcale famiglia, le mogli, i giovanotti brutali, gli antipatici facocerini. Oh, è inutile negare, forse senza che se ne rendesse ben conto, anche nei giorni scorsi lui ha continuato a seguirli, a distanza, curando di non farsi vedere. Ed è ridicolo, certo ma lui provava piacere ad annusare le loro peste recenti, a riconoscere le orme di questo o di quello; ecco, qui devono essersi azzuffati, là hanno fatto scorpacciata di radici, non me ne hanno lasciata neppure una. Reietto, non aveva potuto staccarsi, non era stato capace di vivere solo, presuntuoso vecchio, e adesso l'unica speranza superstite deriva ancora da loro.
Ma una seconda fucilata l'ha preso a metà di una coscia, il sole tra poco affonderà sotto terra e dal fiume troppo lontano si avanzano a imbuto tetri abissi di buio. Vediamo, dall'automobile, che il suo trotto si è fatto in un certo senso svogliato e pesante, come se l'istinto ancora lo traesse alla fuga, ma non più sincera velleità di vita. Il deserto del resto sembra divenire sempre più sterminato, allontanandosi anziché approssimarsi il verde segno del fiume.
Io dico al compagno: " Guarda, si è fermato, è stanco. Fatti sotto, ci sono ancora pochi minuti di luce ". E siccome noi possiamo continuare la strada (su di noi nessuno ha sparato a tradimento colpi di Mauser con pallottole dilaceranti) siccome noi ci avviciniamo, il facocero comincia a farsi più grande, scorgiamo finalmente il laido volto, le orecchie irte di setole, la molto nobile criniera. Esso è immobile, in piedi e ci guarda con due occhi a spillo. Deve essere oramai esausto, ma può darsi anche sia stato un solingo dio dancalo a trattenerlo, col vitreo scettro di sale, rimproverandogli la viltà della fuga.
La canna dello schioppo è già stata disposta secondo l'esatta linea di mira; a questa breve distanza sbagliare sarebbe impossibile, il dito indice si appoggia all'incavo del grilletto. Ed allora (mentre i draghi della notte sopraggiungevano dalle spente caverne d'oriente con la precipitazione di chi teme d'arrivare in ritardo) allora lo vedemmo volgere lentamente il muso in direzione del sole, di cui restava sopra il deserto soltanto una piccola fetta purpurea. C'era una pace immensa e ci nacque l'immagine di una villa ottocentesca alla medesima ora, con le vetrate già accese e affacciata una vaga figurina di donna che tra echi di musica mandasse un sospiro, mentre i cani viziati chiacchierano al cancello del giardino su aneddoti nobiliari e di caccia.
Il mugolìo del motore si spense e forse allora, per misericordioso fiato di vento, giunse al facocero la voce dei compagni liberi e felici, rintanati sulle rive del fiume. Era però troppo tardi. Intorno a lui stava per calare l'estremo sipario. Né gli restava più nulla se non dare uno sguardo al sole residuo, come positivamente fece, non già per sentimentali rimpianti, né per succhiarne con gli occhi l'ultima luce, solo per chiamarlo a testimone dell'ingiustizia che si compiva.
Quando tacque il colpo della fucilata, esso giaceva sul fianco sinistro, con gli occhi già chiusi, le zampe abbandonate. Sotto i nostri occhi – in alto accendevansi le prime stelle – esalò gli ultimi respiri: due borbottii profondi da vecchio, commisti ai rigurgiti sanguigni. E non successe nulla, non il più sottile spirito si involò dal mostro defunto per navigare nei cieli, neppure una minuscola bollicina. Perché il sapientissimo Geronimo, che di queste cose se ne intende, è disposto ad ammettere un'anima, sia pure rudimentale, al leone, all'elefante e ai più eletti carnivori; nei giorni di ottimismo si mostra benevolmente disposto perfino col pellicano, ma col facocero mai, assolutamente; per quanto insistessimo, egli ha sempre rifiutato di concedergli il privilegio di una seconda vita.
10. PAURA ALLA SCALA
Per la prima rappresentazione della Strage degli innocenti di Pierre Grossgemuth (novità assoluta in Italia) il vecchio maestro Claudio Cottes non esitò a mettere il frac. Si era già, è vero, in maggio inoltrato quando la stagione della Scala, a giudizio dei più intransigenti, volge al declino, quando al pubblico, composto in gran parte di turisti, è buona norma offrire spettacoli di esito sicuro, non di eccessivo impegno, scelti nel repertorio tradizionale di tutta tranquillità; e non importa se i direttori non sono proprio i massimi, se i cantanti, per lo più elementi di vecchia rotine scaligera, non destano curiosità. In questo periodo i raffinati si concedono confidenze formali che darebbero scandalo nei mesi più sacri alla Scala: par quasi di buon gusto alle signore non insistere nelle toilettes da sera e vestire semplici abiti da pomeriggio, agli uomini venire in blu o in grigio scuro con cravatte di colore come se si trattasse di visita a una famiglia amica. E qualche abbonato, per snobismo, giunge al punto di non farsi neanche vedere, senza però cedere ad altri il palco o la poltrona che rimangono perciò vuoti (e tanto meglio se i conoscenti vorranno accorgersene).
Ma quella sera c'era spettacolo di gala. Prima di tutto la Strage degli innocenti costituiva in sé un avvenimento, a motivo delle polemiche che il lavoro aveva provocate cinque mesi prima in mezza Europa quando era stata messa in scena a Parigi. Si diceva che in quest'opera (a dir la verità si trattava, secondo la definizione dell'autore, di un " Oratorio popolare, per coro e voci, in dodici quadri ") il musicista alsaziano, uno dei maggiori capiscuola dell'epoca moderna, avesse, benché a tarda età, preso una nuova via (dopo averne cambiate tante) assumendo forme ancora più sconcertanti e audaci delle precedenti, con la dichiarata intenzione però di " richiamare finalmente il melodramma dal gelido esilio dove gli alchimisti tentano di tenerlo in vita con pesanti droghe, verso le dimenticate contrade della verità: cioè, a sentire i suoi ammiratori, aveva rotto i ponti col passato prossimo, tornando (ma bisognava sapere come) alla gloriosa tradizione dell'Ottocento: qualcuno aveva perfino trovato riferimenti con le tragedie greche.
L'interesse maggiore nasceva comunque dalle ripercussioni di genere politico. Nato da famiglia evidentemente originaria della Germania, di aspetto quasi prussiano pure lui benché ormai ingentilito in volto dall'età e dalla pratica dell'arte, Pierre Grossgemuth, da molti anni stabilito presso Grenoble, aveva avuto, al tempo dell'occupazione, un contegno dubbio. Non aveva saputo dire di no quando i tedeschi lo avevano invitato a dirigere un concerto a scopo di beneficenza, era stato d'altra parte, si raccontava, largo di aiuti verso i maquis della zona. Aveva fatto cioè di tutto per non dover prendere un atteggiamento aperto, standosene rinserrato nella sua ricca villa, donde, nei mesi più critici prima della liberazione, non veniva neanche più la solita inquietante voce del pianoforte. Ma Grossgemuth era un grande artista e la sua crisi non sarebbe stata rinvangata se egli non avesse scritto e fatto rappresentare la Strage degli innocenti. La più ovvia interpretazione di questo oratorio – su libretto di un giovanissimo poeta francese, Philippe Lasalle, ispirato dall'episodio biblico – era che fosse un'allegoria dei massacri compiuti dai nazisti, con l'identificazione di Hitler nella torva figura di Erode. Critici d'estrema sinistra avevano però attaccato Grossgemuth accusandolo di adombrare, sotto la superficiale e illusoria analogia antihitleriana, le eliminazioni compiute dai vincitori, dalle vendette spicciole avvenute in ogni borgo fino alle forche di Norimberga. Ma c'era chi andava più in là: la Strage degli innocenti, secondo questi, voleva essere una specie di profezia e alludere a una futura rivoluzione e massacri relativi; condanna quindi anticipata di tale rivolta e ammonimento a quanti avrebbero avuto il potere di soffocarla in tempo: un libello, insomma, di spirito addirittura medioevale.