Questa naturale bonomia – egli non era affatto invelenito di trovarsi escluso, a causa dell'età, dall'attiva vita artistica – lo rendeva simpatico a tutti quanti e gli assicurava, da parte della direzione della Scala, un trattamento di riguardo. Nella stagione lirica non è mai questione di pianisti e la presenza in platea del buon Cottes, nelle serate un po' difficili, costituiva un sicuro piccolo nucleo di ottimismo. Per lo meno sui suoi personali battimani si poteva contare come regola; e l'esempio di un concertista già famoso era presumibile inducesse molti dissenzienti a moderarsi, gli indecisi ad approvare, i tepidi a un consenso più manifesto. Ciò senza contare il suo aspetto molto " scaligero " e le passate benemerenze di pianista. Il suo nome quindi figurava nella segreta e avara lista degli " abbonati perpetui non paganti ". Al mattino di ogni giorno di première, la busta col biglietto per una poltrona compariva immancabilmente nella cassetta della sua posta, alla portineria di via della Passione, 7. Solo per le " prime " che si prevedevano povere d'incassi, le poltrone erano due, una per lui e l'altra per il figlio. Del resto Arduino non ci teneva; preferiva arrangiarsi da solo, con gli amici, assistendo alle prove generali dove non c'è l'obbligo di andar vestiti bene.
Per l'appunto, della Strage degli innocenti, Cottes junior aveva ascoltato il giorno prima l'ultima prova. Ne aveva anche parlato col padre a colazione, in termini molto nebbiosi come era sua abitudine. Aveva accennato a certe " interessanti risoluzioni timbriche ", a una " polifonia molto scavata, a delle " vocalizzazioni più deduttive che induttive " (parole queste pronunciate con una smorfia di disprezzo) e così via. L'ingenuo padre non era riuscito a capire se il lavoro fosse buono o no, o quanto meno se al figlio fosse piaciuto o dispiaciuto. Non insistette per sapere. I giovani lo avevano abituato al loro gergo misterioso; alle porte del quale anche stavolta ristette intimidito.
Adesso si trovava solo in casa. La donna di servizio, che veniva a ore, se n'era andata. Arduino a pranzo fuori e il pianoforte, grazie al Cielo, muto. Il " grazie al Cielo " era senza dubbio nel cuore del vecchio concertista; mai però egli avrebbe avuto il coraggio di confessarlo. Quando il figlio componeva, Claudio Cottes entrava in uno stato di estrema agitazione interna. Da quegli accordi apparentemente inesplicabili di momento in momento egli aspettava, con una speranza quasi viscerale, che uscisse infine qualche cosa di simile alla musica. Capiva che era una debolezza da sorpassato, che non si poteva battere di nuovo le antiche strade. Si ripeteva che proprio il gradevole doveva essere evitato quale segno di impotenza, decrepitezza, marcia nostalgia. Sapeva che la nuova arte doveva soprattutto far soffrire gli ascoltatori e qui era il segno, dicevano, della sua vitalità. Ma era più forte di lui. Nella stanza vicina, ascoltando, egli talora intrecciava le dita delle mani così forte da farle scricchiolare, come se con questo sforzo aiutasse il figlio a " liberarsi ". Il figlio invece non si liberava; le note, faticando, si aggrovigliavano sempre di più, gli accordl assumevano suoni ancor più ostili, tutto restava lì sospeso o addirittura si rovesciava a piombo in più caparbi attriti. Che Dio lo benedisse. Deluse, le mani del padre si separavano, tremando un poco si affaccendavano ad accendere una sigaretta.
Cottes era solo, si sentiva bene, un'aria tepida entrava dalle finestre aperte. Le otto e mezzo, ma il sole splendeva ancora. Mentre egli si vestiva, suonò il telefono. " C'è il maestro Cottes? " fece una voce sconosciuta. " Sì, sono io " rispose. " Il maestro Arduino Cottes? " " No, io sono Claudio, il padre. " La comunicazione fu troncata. Tornò alla camera da letto e il telefono suonò di nuovo. " Ma c'è o non c'è Arduino? " domandò la stessa voce di prima, in tono quasi villano. " No, el gh'è no " rispose il padre cercando di pareggiare la bruschezza. " Peggio per lui! " fece l'altro e tolse il contatto. Che modi, pensò Cottes, e chi poteva essere? Che razza di amici frequentava adesso Arduino? E che cosa poteva significare quel " peggio per lui "? La telefonata gli lasciò una punta di fastidio. Durò per fortuna pochi istanti. Nello specchio dell'armadio, il vecchio artista ora rimirava il proprio frac di antico stile, largo, a sacco, adatto alla sua età e nello stesso tempo molto bohémien. Ispirato, pare, dall'esempio del leggendario Joachim, Cottes aveva la civetteria, proprio per distinguersi dal piatto conformismo, di mettere il panciotto nero. Come i camerieri, esattamente, ma chi al mondo, fosse pure cieco, avrebbe mai scambiato lui, Claudio Cottes, per un cameriere? Benché avesse caldo, indossò un leggero soprabito per evitare la curiosità indiscreta dei passanti, e preso un piccolo binocolo, uscì di casa, sentendosi pressoché felice.
Era una sera incantevole di prima estate, quando perfino Milano riesce a recitare la parte di città romantica: con le strade quiete e semideserte, il profumo dei tigli che usciva dai giardini, una falce di luna in mezzo al cielo. Pregustando la brillante serata, l'incontro con tanti amici, le discussioni, la vista delle belle donne, lo spumante prevedibile al ricevimento annunciato dopo lo spettacolo nel ridotto del teatro, Cottes si avviò per via Conservatorio; allungava così di poco il cammino ma risparmiava la vista, a lui ingratissima, dei Navigli coperti.
Ivi il maestro si imbatté in uno spettacolo curioso. Un giovanotto dai lunghi capelli ricci cantava sul marciapiede una romanza napoletana tenendo un microfono a pochi centimetri dalla bocca. Un filo correva dal microfono a una cassetta, con accumulatore, impianto di amplificazione e altoparlante, da cui la voce usciva con tracotanza, così da rimbombare tra le case. C'era in quel canto una specie di sfogo selvaggio, un'ira, e benché le note parole fossero di amore, si sarebbe detto che il giovane stesse minacciando. Intorno, sette otto ragazzetti dall'aria imbambolata e basta. Le finestre, da una parte e dall'altra della via, erano chiuse, sprangate le persiane, come se si rifiutassero di ascoltare. Tutti vuoti questi appartamenti? O gli inquilini si erano chiusi dentro, simulando l'assenza, per paura di qualche cosa? Al passaggio di Claudio Cottes, il cantante, senza muoversi, accrebbe l'intensità delle emissioni tanto che l'altoparlante cominciò a vibrare: era un invito perentorio a mettere dei soldi sul piattello collocato sopra la cassetta. Ma il maestro, disturbato nell'animo, non sapeva neppure lui come, continuò dritto accelerando il passo. E per parecchi metri sentì sulle spalle il peso dei due occhi vendicativi. " Tanghero e cane! " inveì mentalmente il maestro contro il posteggiatore. La sguaiataggine dell'esibizione gli aveva guastato il buon umore, chissà perché. Ma ancor più fastidio gli procurò, quando stava per raggiungere San Babila, un breve incontro con Bombassei, ottimo giovane che era stato suo allievo al Conservatorio e adesso faceva il giornalista. " è di Scala, maestro? " gli chiese scorgendo nello scollo del soprabito la cravattina bianca. " Vorresti insinuare, o insolente ragazzo, che alla mia età sarebbe ora…? " fece lui sollecitando, ingenuo, un complimento. " Lo sa bene anche lei " disse l'altro " che la Scala non si chiamerebbe Scala senza il maestro Cottes. Ma Arduino? Come mai non è venuto? " " Arduino ha già visto la prova generale. Stasera era impegnato. " " Ah, capisco " disse Bombassei con un sorriso di furba comprensione. " Stasera… avrà preferito stare a casa… " " E perché mai? " domandò Cottes avvertendo il sottinteso.
" Ci sono troppi amici in giro, stasera " e il giovane fece un cenno con la testa ad indicare la gente che passava. "… Del resto, nei suoi panni, io farei altrettanto… Ma mi scusi, maestro, c'è qui il mio tram… Buon divertimento! "