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Se mai nella sala si trovavano quella sera, degli uomini, timorosi o inquieti, certo la musica di Grossgemuth, le smanie del Tetrarca, gli impetuosi e quasi ininterrotti interventi del coro appollaiato come un branco di corvi su una specie di rupe conica (le sue invettive piombavano come cateratte sul pubblico, facendolo spesso sobbalzare) le scene allucinate, non erano certo fatte per rasserenarli. Sì, c'era dell'energia, ma a quale prezzo. Strumenti, suonatori, coro, cantanti, massa di ballo (che era di scena quasi sempre per minuziose esplicazioni mimiche, mentre i protagonisti si muovevano di rado) direttore e perfino spettatori erano sottoposti al massimo sforzo che si potesse pretendere da loro. Al termine della prima parte l'applauso esplose non tanto a scopo di consenso quanto per il comune bisogno fisico di sfogare la tensione. La meravigliosa sala vibrava tutta. Alla terza chiamata comparve tra gli interpreti la torreggiante sagoma di Grossgemuth il quale rispondeva con brevissimi e quasi stentati sorrisi, piegando ritmicamente il capo. Claudio Cottes si ricordò dei tre lugubri signori e, continuando a battere le mani, alzò gli occhi a guardarli: erano ancora là, immobili e inerti come prima, non si erano spostati di un millimetro, non applaudivano, non parlavano, non sembravano neanche persone vive. Che fossero dei manichini? Restarono nella stessa posizione anche quando la maggior parte della gente si fu riversata nel ridotto.

Appunto durante il primo intervallo le voci che fuori, nella città, stesse covando una specie di rivoluzione, si fecero strada in mezzo al pubblico. Anche qui esse procedettero in sordina, a poco a poco, grazie ad un istintivo ritegno della gente. Né riuscirono certo a sopraffare le accese discussioni sull'opera di Grossgemuth a cui il vecchio Cottes prese parte, senza esprimere giudizi, con scherzosi commenti in meneghino. Suonò infine il campanello per annunciare la fine dell'entr'acte. Avviatosi giù per la scala dalla parte del Museo teatrale, Cottes si trovò fianco a fianco con un conoscente di cui non ricordava il nome e il quale, accortosi di lui, gli sorrise con espressione astuta.

" Bene, caro maestro " disse " sono proprio contento di vederla, avevo appunto desiderio di dirle una cosa… " Parlava adagio con pronuncia molto affettata. Intanto scendevano. Ci fu un ingorgo, per un istante furono separati. " Ah eccola " riprese il conoscente quando si ritrovarono vicini " dove mai era sparito? Sa che per un momento ho creduto che lei fosse sparito sottoterra?… Come Don Giovanni! " E gli parve di aver trovato un accostamento molto spiritoso perché si mise a ridere di gusto; e non finiva mai. Era un signore scialbo, dall'aspetto incerto, un intellettuale di buona famiglia andato al meno, si sarebbe detto a giudicare dallo smoking di taglio sorpassato, dalla camicia floscia di dubbia freschezza, dalle unghie listate di grigio. Imbarazzato, il vecchio Cottes attendeva. Erano giunti quasi in fondo. " Bene " riprese, circospetto, il conoscente incontrato chissà dove " lei deve promettermi di considerare ciò che le dirò come una comunicazione confidenziale… confidenziale, mi spiego?… Non s'immagini insomma cose che non ci sono… Non le venga in mente di considerarmi, come dire?, di considerarmi un rappresentante officioso… un portavoce, questo è il termine oggi usato, vero? "

" Sì, sì " disse il Cottes, sentendo rinascere l'identico malessere provato nell'incontro con Bombassei, però ancora più acuto " sì… Ma le assicuro che non capisco niente… " Suonò il secondo campanello di avvertimento. Erano nel corridoio che corre, a sinistra, di fianco alla platea. Stavano per imbucare la scaletta che porta alle poltrone.

Qui lo strano signore si fermò. " Ora devo lasciarla " disse. " Io non sono in platea… Ebbene… basterà le dica questo: suo figlio, il musicista… sarebbe forse meglio… un po' più di prudenza, ecco… non è più un ragazzino, vero, maestro?… Ma vada, vada, che hanno già spento… E io ho parlato perfino troppo, sa? " Rise, chinò il capo senza dare la mano, se ne andò svelto, quasi correndo, sul tappeto rosso del corridoio deserto. Meccanicamente il vecchio Cottes s'inoltrò nella sala già buia, chiese scusa, raggiunse il suo posto. In lui era il tumulto. Che cosa stava combinando quel pazzo di Arduino? Sembrava che tutta Milano lo sapesse mentre lui, padre, non riusciva neanche a immaginarlo. E chi era questo signore misterioso? Dove gli era stato presentato? Senza successo si sforzava di ricordare le circostanze della prima conoscenza. Gli parve di poter escludere gli ambienti musicali. Dove allora? Forse all'estero? In qualche albergo durante la villeggiatura? No, assolutamente non riusciva a ricordare. Intanto, sulla scena, avanzava con mosse da biscia la provocante Martha Witt, in nudità barbariche, a incarnare la Paura, o cosa del genere, che entrava nel palazzo del Tetrarca.

Come Dio volle si giunse anche al secondo entr'acte. Non appena si accesero le luci il vecchio Cottes cercò intorno, ansiosamente, il signore di prima. Lo avrebbe interpellato, si sarebbe fatto spiegare; una motivazione non gli poteva essere rifiutata. Ma l'uomo non si vedeva. Alla fine, singolarmente attratto, il suo sguardo posò sul palco dei tre tipi tenebrosi. Non erano più tre, ce n'era un quarto che si teneva un poco indietro, in smoking questi, però squallido anche lui. Uno smoking di taglio sorpassato (adesso Cottes non esitò a guardare col binocolo) una camica floscia di dubbia freschezza. E a differenza degli altri tre, rideva, il nuovo venuto, con espressione astuta. Un brivido corse per la schiena del maestro Cottes.

Si volse al professor Ferro, come chi, sprofondando nell'acqua, afferra senza badare il primo sostegno che si offre. " Scusi, professore " domandò con precipitazione " mi sa dire chi sono quei brutti tipi in quel palco, là in terza fila, subito a sinistra di quella signora in viola? " " Quei negromanti? " fece ridendo il pediatra " ma è lo Stato Maggiore! lo Stato Maggiore pressoché al completo. " " Stato Maggiore? Che Stato Maggiore? " Il Ferro sembrava divertito: " Almeno lei, maestro, vive sempre nelle nuvole. Beato lei ". " Che Stato Maggiore? " insistette il Cottes impazientito. " Ma dei Morzi, benedetto Iddio! " " Dei Morzi? " fece eco il vecchio, assalito da pensieri ancor più foschi. I Morzi, nome tremendo. Lui Cottes non era pro né contro, non se ne intendeva, non aveva mai voluto interessarsene, sapeva solo che erano pericolosi, che era meglio non stuzzicarli. E quello sciagurato di Arduino gli si era messo contro, se ne era tirato addosso l'inimicizia. Non c'erano altre spiegazioni. Di politica, di intrighi si occupava dunque quel ragazzo senza cervello invece di mettere un po' di senso comune nelle sue musiche. Padre indulgente sì, discreto, comprensivo quanto si voleva; ma all'indomani si sarebbe fatto perdio sentire! Rischiare di rovinarsi per una smania idiota! Nello stesso tempo rinunciò all'idea di interpellare il signore di poco prima. Capiva che sarebbe stato inutile, se non dannoso. Gente che non scherzava i Morzi. Bontà loro se avevano avuto la finezza di metterlo sull'avviso. Si guardò alle spalle. Aveva la sensazione che tutta la sala lo fissasse, disapprovando. Brutti tipi i Morzi. E potenti. Inafferrabili. Perché andarli a provocare?

Si riscosse con fatica. " Maestro, non si sente bene? " gli chiedeva il prof. Ferro.

" Come?… Perché… " rispose tornando progressivamente a galla.

" L'ho visto diventare pallido… Alle volte succede con questo caldo… Mi scusi… " Lui disse: " Anzi… la ringrazio… ho avuto infatti un colpo di stanchezza… Eh, sont vecc! ". Si raddrizzò, avviandosi all'uscita. E come al mattino il primo raggio del sole cancella gli incubi che per tutta notte hanno ossessionato l'uomo, così, tra i marmi del ridotto, lo spettacolo di tutta quell'umanità ricca, piena di salute, elegante, profumata e viva, trasse il vecchio artista dall'ombra in cui la rivelazione lo aveva fatto sprofondare. Deciso a distrarsi, si avvicinò a un gruppetto di critici che stavano discutendo. " In ogni caso " diceva uno " i cori restano, non si può negare. " " I cori stanno alla musica " fece un secondo " come le teste di vecchio stanno alla pittura. Si fa presto a raggiungere l'effetto, ma dell'effetto non si diffida mai abbastanza. " " Bene " disse un collega noto per il suo candore. " Ma di questo passo?… La musica di adesso non cerca effetti, non è frivola, non è passionale, non è orecchiabile, non è istintiva, non è facile, non è plateale, tutto benissimo. Ma mi sa dire che cosa rimane? " Cottes pensò alle musiche del figlio. Fu un gran successo. È molto dubbio che in tutta la Scala ci fosse uno a cui la musica della Strage piacesse sinceramente. Ma c'era nella generalità il desiderio di mostrarsi all'alteza della situazione, di figurare all'avanguardia. In questo senso una specie di gara si accese tacitamente a superarsi. E poi, quando con tutto l'impegno ci si mette all'agguato di una musica per scoprirne ogni possibile bellezza, genialità inventiva, riposto significato, allora l'autosuggestione lavora senza limiti. Inoltre: quando mai, con le opere moderne, ci si era divertiti? Si sapeva in partenza che i nuovi capiscuola rifuggono dal divertire. Goffaggine imperdonabile pretenderlo da loro. Per chi chiedeva di divertirsi non c'era il varietà, non c'erano i " luna park " sui bastioni? Quella stessa esasperazione nervosa a cui portavano l'orchestra di Grossgemuth, le voci tese sempre al massimo registro e specialmente i cori martellanti, non era del resto da buttar via. Sia pure brutalmente, il pubblico in un certo senso era stato commosso, come negarlo? La smania che si accumulava negli spettatori e li costringeva, appena fattosi silenzio, a battere le mani, a gridare bravo, ad agitarsi, non era un fior di risultato per un musicista?