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Il vero entusiasmo fu però dovuto all'ultima, lunga, incalzante scena dell' " oratorio ", quando i soldati di Erode irruppero in Betlemme alla ricerca dei bambini e le madri glieli contesero sulla soglia delle case finché quelli ebbero il sopravvento e allora il cielo si oscurò, e un accordo altissimo di trombe, dal fondo del palcoscenico, annunciò la salvezza del Signore. Bisogna dire che scenografo, figurinista e soprattutto Johan Monclar, autore della coreografia e ispiratore di tutto l'allestimento scenico, erano riusciti ad evitare possibili interpretazioni dubbie: il quasi scandalo successo a Parigi li aveva messi in guardia. Cosicché Erode non che assomigliasse a Hitler ma certo aveva un deciso aspetto nordico ricordando più Siegfried che il padrone della Galilea. E i suoi armati, specialmente per la forma dell'elmo, non permettevano di certo equivoci. " Ma sta chì " disse Cottes " L'è minga la reggia d'Erode. Ghe doveven scriv su Oberkommandantur! "

I quadri scenici parvero molto belli. Di effetto irresistibile, come si è detto, fu l'ultima tragica danza dei massacratori e delle madri, mentre dalla sua rupe smaniava il coro. Il trucco, per così dire, di Monclar (non nuovissimo del resto) fu di estrema semplicità. I soldati erano tutti neri compreso il volto; le madri tutte bianche; e i bambini erano rappresentati da certi pupi fatti al tornio (su disegno, c'era scritto sul programma, dello scultore Ballarin) di colore rosso vivo, tirati a lucido e per questo loro fulgore emozionanti. Le successive composizioni e scomposizioni di quei tre elementi, bianco, nero e rosso, sullo sfondo violaceo del paese, precipitanti in un ritmo sempre più affannato, furono interrotte più volte dagli applausi. " Guarda Grossgemuth com'è raggiante " esclamò una signora dietro a Cottes quando l'autore venne alla ribalta. " Bella forza! " ribatté lui. " El gha on crapon ch'el par on specc! " Il celebre compositore era infatti calvo (o rasato?) come un uovo. Il palco dei Morzi in terza fila era già vuoto.

In questa atmosfera di soddisfazione, mentre la maggior parte del pubblico se n'andava a casa, la crème affluì rapidamente nel ridotto per il ricevimento. Sontuosi vasi di ortensie bianche e rosa erano stati collocati negli angoli della lucente sala, che prima, durante gli intervalli, non si eran visti. Alle due porte stavano a ricevere gli ospiti da una parte il direttore artistico, maestro Rossi-Dani, dall'altra il sovrintendente dottor Hirsch, con la brutta ma garbata moglie. Poco dietro a loro, perché amava far sentire la sua presenza ma nello stesso tempo non voleva ostentare un'autorità che non le apparteneva ufficialmente, la signora Portalacqua, chiamata più frequentemente " donna Clara ", chiacchierava col venerando maestro Corallo. Già segretaria e braccio destro, molti anni prima, del maestro Tarra, allora direttore artistico, la Portalacqua, rimasta vedova a meno di trent'anni, ricca di casa, imparentata con la miglior borghesia industriale di Milano, era riuscita a farsi considerare indispensabile anche dopo che il Tarra era defunto. Aveva naturalmente dei nemici i quali la definivano un'intrigante anche essi però pronti a ossequiarla se l'incontravano. Benché probabilmente non ce ne fosse alcun motivo, era temuta. I successivi direttori artistici e i sovrintendenti avevano subito intuito il vantaggio di tenersela buona. La interpellavano quando c'era da formare il cartellone, la consultavano sulla scelta degli interpreti e quando con le autorità e con gli artisti nasceva qualche grana era sempre lei chiamata a districarla; dove, bisogna dire, era bravissima. Del resto, per salvar le forme, da anni immemorabili, donna Clara era consigliera dell'Ente autonomo: un seggio praticamente vitalizio che nessuno si era mai sognato di insidiare. Un solo sovrintendente, creato dal fascismo, il comm. Mancuso, ottima pasta d'uomo ma sprovveduto nella navigazione della vita, aveva cercato di metterla da parte; dopo tre mesi, non si sa come, fu sostituito.

Donna Clara era una donna bruttina, piccola, magra, insignificante nell'aspetto, trasandata nel vestire. Una frattura del femore sofferta in gioventù per una caduta da cavallo l'aveva lasciata un poco zoppa (donde il nomignolo di " diavola zoppa " nel clan avversario). Dopo pochi minuti sorprendeva però l'intelligenza che illuminava la sua faccia. Più d'uno, benché sembri strano, se ne era innamorato. Adesso, a oltre sessant'anni, anche per quella specie di prestigio che le dava l'età, vedeva affermarsi come non mai il suo potere. In realtà sovrintendente e direttore erano poco più che dei funzionari a lei subordinati; ma sapeva manovrare con tanto tatto che quelli non se n'accorgevano, anzi erano illusi di essere nel teatro poco meno che dei dittatori.

La gente entrava a fiotti. Uomini celebri e rispettati, ruscelli di sangue blu, toilettes giunte fresche da Parigi, gioielli celebri, bocche, spalle e seni a cui anche gli occhi più morigerati non si rifiutavano. Ma insieme entrava ciò che fino allora era soltanto balenato fuggevolmente tra la folla, eco remota e non credibile, senza ferirla: entrava la paura. Le varie e difformi voci avevano finito per incontrarsi e, confermandosi a vicenda, per fare presa. Qua e là si bisbigliava, confidenze all'orecchio, risolini scettici, esclamazioni incredule di quelli che voltavano tutto in una burla. In quel mentre, seguito dagli interpreti, comparve nella sala Grossgemuth. Ci furono, in francese, le presentazioni alquanto laboriose. Poi il musicista, con l'indifferenza di prammatica, fu guidato verso il buffet. Al fianco gli era donna Clara.

Come succede in questi casi, le conoscenze di lingue estere furono messe a dura prova. " Un chef-d'oeuvre, véritablement, un vrai chef-d'oeuvre! " continuava a ripetere il dott. Hirsch, sovrintendente, napoletano nonostante il nome, e sembrava non sapesse dire altro. Anche Grossgemuth, sebbene stabilito da decenni in Delfinato, non si mostrava troppo disinvolto: e il suo accento gutturale rendeva ancora più difficile la comprensione. A sua volta il direttore d'orchestra, maestro Nieberl, pure tedesco, di francese ne sapeva poco. Ci volle un po' di tempo prima che la conversazione si avviasse sui suoi binari. Unica consolazione per i più galanti: la sorpresa che Martha Witt, la danzatrice di Brema, parlasse discretamente l'italiano, anzi con un curioso accento bolognese.