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Lei parlò a bassavoce, adagio, facendo sibilare le esse: " Se tu sapessi quanto schifo mi fai, se tu sapessi come sei brutto e vecchio. Guardalo là il pittore Lo Ritto, l'imbrattatele! ". Godeva che ogni parola sprofondasse come un trapano nei punti di lui più sensibili e dolenti. " Ma guardati, guardati nello specchio, un uomo finito sei, un rudere, brutto, senza denti, con quella pidocchiera lurida!… L'artista eh?… E puzzi anche. Non senti che tanfo c'è in questa camera? " Con un ghigno di nausea spalancò la finestra e si protese sul davanzale come per respirare aria pulita.

Dal letto venne una specie di lamento: " Io mi ammazzo, giuro che mi ammazzo, io non ne posso più… ".

La donna tacque, stava immobile, guardando fuori, nella fredda notte di dicembre.

Dopo un poco ancora lui, non più querulo, in uno strappo di risorgente collera: " E chiudi, chiudi quella finestra maledetta, vuoi farmi venire un accidente? ".

Ma la moglie non si mosse. Di sbieco egli ne scorgeva il volto; il quale non era più teso e malvagio come prima ma si era come vuotato di vita all'improvviso; vi era im~ presso un sentimento nuovo che l'aveva stranamente trasformato. E una luce, che non si capiva donde provenisse, lo illuminava.

" A che cosa pensa " si chiese lui. " Che la minaccia di ammazzarmi l'abbia spaventata? " Poi capì che non poteva essere questo. Sebbene si potesse forse ancora illudere sull'attaccamento della moglie, era evidente che si trattava dÌ altro. Qualcosa di ben più terribile e potente. Ma cosa?

In quel mentre lei, senza muoversi, chiamò il marito. " Adolfo " disse, ed era la voce tenera e sbigottita di una bambina. " Adolfo, guarda " mormorò ancora in una costernazione inesprimibile, quasi esalasse l'ultimo respiro.

Senza pensare al freddo, tanta era la curiosità, il Lo Ritto balzò fuori del letto, e raggiunse la moglie al davanzale, dove pure egli ristette, impietrito.

Dal nero crinale dei tetti, oltre il cortile, una cosa immensa e luminosa si alzava nel cielo lentamente. A poco a poco il suo profilo curvo e regolarissimo si delineava, finché la forma si rivelò: era un disco lucente di inaudite dimensioni. " Dio mio, la luna! " pronunciò l'uomo, sgomento.

Era la luna, ma non la placida abitatrice delle nostre notti, propizia agli incantesimi d'amore, discreta amica al cui lume favoloso le catapecchie diventavano castelli. Bensì uno smisurato mostro butterato di voragini. Per un ignoto cataclisma siderale essa era paurosamente ingigantita ed ora, silente, incombeva sul mondo, spandendovi una immota e allucinante luce, simile a quella dei bengala. Tale riverbero faceva risaltare i più minuti particolari delle cose, gli spigoli, le rugosità dei muri, le cornici, i sassi, i peli e le rughe della gente. Ma nessuno si guardava intorno. Gli occhi erano tutti rivolti al cielo, non riuscivano a staccarsi da quella terrificante apparizione.

Dunque le leggi eterne si erano spezzate, un guasto orrendo era successo nelle regole del cosmo, e forse quella era la fine, forse il satellite con velocità crescente sta ancora avvicinandosi, tra qualche ora il globo funesto si allargherà a riempire interamente il cielo, poi la sua luce si spegnerà entro il cono d'ombra della terra, né si vedrà più nulla finché, per una infinitesima frazione di secondo, ai fievoli riverberi della città notturna, si indovinerà un sotfitto scabro e sterminato di pietra precipitante su di noi, non ci sarà neppure il tempo di vedere; tutto sprofonderà nel nulla prima ancora che le orecchie percepiscano il primo tuono dello schianto.

Nel cortile è uno sbattere di finestre e imposte che si aprono, richiami, urla d'orrore, sui davanzali gruppi di figure umane, spettrali a quella luce. Il Lo Ritto sente una mano della moglie, stringergli la destra tanto da fargli male. " Adolfo " lei sussurra in un soffio. " Adolfo, oh, perdonami Adolfo, abbi pietà di me, perdonami! " Tra i singhiozzi gli si stringe contro, scossa da un tremito violento. Gli sguardi fissi alla mostruosa luna, lui tiene la moglie fra le braccia, mentre un boato che sembra uscire dalle viscere del mondo – sono gli uomini, milioni di gridi e di lamenti in coro – si alza intorno dalla città atterrita.

39. LE MURA DI ANAGOOR

Nell'interno del Tibesti una guida indigena mi domandò se per caso volevo vedere le mura della città di Anagoor, lui mi avrebbe accompagnato. Guardai la carta ma la città di Anagoor non c'era. Neppure sulle guide turistiche, che sono così ricche di particolari, vi si faceva cenno. Io dissi: " Che città è questa che sulle carte geografiche non è segnata? ". Egli rispose: " è una città grande, ricchissima e potente ma sulle carte geografiche non è segnata perché il nostro Governo la ignora, o finge di ignorarla. Essa fa da sé e non obbedisce. Essa vive per conto suo e neppure i ministri del re possono entrarvi. Essa non ha commercio alcuno con altri paesi, prossimi o lontani. Essa è chiusa. Essa vive da secoli entro la cerchia delle sue solide mura. E il fatto che nessuno ne sia mai uscito non significa forse che vi si vive felici? ". " Le carte " io insistetti " non registrano nessuna città di nome Anagoor, ciò fa supporre che sia una delle tante leggende di questo paese; tutto dipende probabilmente dai miraggi che il riverbero del deserto crea, nulla di più. "

" Ci conviene partire due ore prima dell'alba " disse la guida indigena che si chiamava Magalon, come se non avesse udito. " Con la tua macchina, signore, arriveremo in vista di Anagoor verso mezzodì. Verrò a prenderti alle tre del mattino, mio signore. "

" Una città come quella che tu dici sarebbe registrata sulle carte con un doppio cerchio e il nome in tutto stampatello. Invece non trovo alcun riferimento a una città di nome Anagoor, la quale evidentemente non esiste. Alle tre sarò pronto, Magalon. "

Coi fari accesi alle tre del mattino si partì in direzione pressappoco sud sulle piste del deserto e mentre fumavo una sigaretta dopo l'altra con la speranza di scaldarmi vidi alla mia sinistra illuminarsi l'orizzonte e subito venne fuori il sole che si mise a battere il deserto finché fu tutto caldo e tremolante, tanto che si vedevano laghi e paludi intorno, in cui si riflettevano le rocce con precisione di contorni, ma di acqua non c'era in verità neanche un secchiello, soltanto sabbia e sassi incandescenti.

Ma la macchina con estrema buona volontà correva e alle 11:37 in punto Magalon che mi sedeva al fianco disse: " Ecco, signore " e infatti vidi le mura della città che si estendevano per chilometri e chilometri, alte dai venti ai trenta metri, di colore giallastro, ininterrotte, qua e là sovrastate da torrette.

Avvicinandomi, notai che in vari punti, proprio a ridosso delle mura, c'erano degli accampamenti: tende miserabili, tende medie, tende da ricchi signori a forma di padiglione, sormontate da bandiere.

" Chi sono? " io chiesi. E Magalon spiegò: " Sono coloro che sperano di entrare e bivaccano dinanzi alle porte ".

" Ah, ci sono delle porte? "

" Ce ne sono moltissime, di grandi e di piccole, forse più di cento, ma è tanto vasto il perimetro della città che tra l'una e l'altra corre una notevole distanza. "

" E queste porte, quando le aprono? "

" Le porte non vengono aperte quasi mai. Però si dice che alcune si apriranno. Stasera, o domani, o fra tre mesi, o fra cinquant'anni, non si sa, è appunto qui il grande segreto della città di Anagoor. "

Eravamo arrivati. Ci fermammo dinanzi a una porta che sembrava di ferro massiccio. Molta gente era là in attesa. Beduini sparuti, mendicanti, donne velate, monaci, guerrieri armati fino ai denti, perfino un principe con la sua piccola corte personale. Ogni tanto qualcuno con una mazza batteva sulla porta, che rintronava.

" Battono " disse la guida " affinché quelli di Anagoor, udendo i colpi, vengano ad aprire. È infatti generale persuasione che se non si bussa nessuno mai aprirà. "