Mi venne un dubbio: " Ma è poi sicuro che di là dalle mura ci sia qualcuno? La città non potrebbe essere ormai estinta? ".
Magalon sorrise: " Tutti, la prima volta che vengono qui hanno il medesimo pensiero. Io stesso sospettavo, un tempo, che dentro le mura non vivesse più nessuno. Ma c'è la prova del contrario. Certe sere, in condizioni favorevoli di luce, si possono scorgere i fumi della città che salgono diritti al cielo, come tanti incensieri. Segno che uomini vivono là dentro, e accendon fuochi, e fanno da mangiare. E poi c'è un fatto anche più dimostrativo: tempo fa una delle porte è stata aperta ". " Quando? " " La data, per essere sinceri, è incerta. Alcuni dicono un mese, un mese e mezzo fa, altri però ritengono il fatto molto più lontano, vecchio di due, tre, perfino quattro anni, qualcuno addirittura lo attribuisce al tempo che regnava il sultano Ahm-er-Ehrgun. " " E quando regnò Ahm-er-Ehrgun? " " Circa tre secoli fa… Ma tu sei molto fortunato, mio signore… Guarda. Benché sia mezzodì e l'aria bruci, ecco là dei fumi. "
Una improvvisa eccitazione, nonostante il caldo, si era propagata nell'eterogeneo accampamento. Tutti erano usciti dalle tende ed additavano due tremule spire di grigio fumo elevantisi nell'aria immota di là dal ciglio delle mura. Non capivo una parola delle concitate voci che si accavallavano. Però era evidente l'entusiasmo. Come se quei due poveri fumi fossero la cosa più meravigliosa del creato e promettessero ai riguardanti una prossima felicità. Il che mi sembrava esagerato per le seguenti ragioni:
Prima di tutto l'apparizione dei fumi non significava affatto una maggiore probabilità che quella porta si dovesse aprire e perciò non vi era motivo sensato di tripudio.
Secondo: tanto schiamazzo, se udito dall'interno delle mura, come era probabile, avrebbe, se mai, dissuaso quelli dall'aprire, anziché incoraggiarli.
Terzo: quei fumi, di per sé, non dimostravano neppure che Anagoor fosse abitata. Infatti non poteva trattarsi di un casuale incendio dovuto al sole torrido? Oppure, ipotesi assai più probabile, erano i fuochi accesi da predoni entrati per qualche pertugio segreto delle mura a saccheggiare la città morta e disabitata. " Era molto strano " io pensavo " che oltre ai fumi, nessun altro sintomo di vita fosse stato notato in Anagoor: né voci, né musiche, né ululati di cani, né sentinelle o curiosi sul ciglio delle mura, mai. Stranissimo. "
Allora io dissi: " Dimmi, Magalon: quando è stata aperta la porta che tu dici, quanta gente è riuscita a entrare? ". " Un uomo solo " disse Magalon. " E gli altri? Cacciati indietro? "
" Altri non c'erano. Si trattava di una delle porte più piccole e trascurate dai pellegrini. Quel giorno non c'era nessuno ad aspettare. Verso sera giunse un viandante che bussò. Egli non sapeva che fosse la città di Anagoor, non si aspettava, entrando, niente di speciale, chiedeva solo un rifugio per la notte. Non sapeva niente di niente, era là per puro caso. Forse solo per questo gli hanno aperto. "
In quanto a me, io ho aspettato quasi ventiquattro anni, accampato fuori delle mura. Ma la porta non si è aperta. E adesso me ne torno al mio paese. I pellegrini dell'attendamento, vedendo i miei preparativi, scuotono il capo: " Eh, amico, quanta furia! " dicono. " Un minimo di pazienza, diamine! Tu pretendi troppo dalla vita. "
40. DIRETTISSIMO
" Quel treno, prendi? " " Quello. " La locomotiva era terribile sotto la tettoia fumigosa, sembrava un toro inferocito che scalpitasse per la smania di partire.
" Con questo treno viaggi? " mi chiedevano. Incuteva infatti paura, tanto frenetica era la tensione del vapore acqueo che filtrava dalle fessure sibilando. " Con questo " io risposi.
" E per dove? " Io dissi il nome. Non l'avevo pronunciato mai, neppure parlando con gli amici, per una specie di pudore. Il grande nome, il massimo, la destinazione favolosa. Di scriverlo qui non ho il coraggio.
Allora mi guardarono chi in un modo chi in un altro: con ira per la mia improntitudine, con scherno per la mia pazzia, con pietà per le mie illusioni. Qualcuno rise. D'un balzo fui nella vettura. Spalancai un finestrino, cercai nella folla volti amici. Non un cane.
E dài allora. o treno, non perdiamo un minuto, corri galoppa. Signor macchinista per piacere non essere avaro di carbone, dà fiato al leviatano. Si udirono dei soffi emessi con precipitazione, i vagoni ebbero un fremito, i pilastri della pensilina si mossero, dapprima lentamente ad uno ad uno mi sfilarono dinanzi. Poi case case stabilimenti gasometri tettoie case case ciminiere androni case case alberi orticelli case tran-tran tran-tran i prati la campagna le nuvole viaggianti nell'aperto cielo! Dài, macchinista, con l'intera potenza del vapore.
Dio, come si correva. A questa andatura ci voleva poco io pensavo, a raggiungere la stazione 1 e poi la 2, la 3, la 4 e poi la 5 che era l'ultima, e sarebbe stata la vittoria. Attraverso i vetri io compiaciuto guardavo i fili elettrici che si abbassavano abbassavano finché facevano uno scarto, tac, risalendo alla primitiva posizione, questo a causa del palo successivo: e il ritmo accelerava sempre più. Ma dinanzi a me sul divano di velluto rosso sedevano due signori con la faccia di coloro che se ne intendono di treni, i quali consultavano continuamente l'orologio e scuotevano il capo brontolando.
Allora io che sono un tipo un po' apprensivo presi il coraggio a due mani e domandai: " Se non sono indiscreto, signori, perché scuotete così il capo? ".
" Scuotiamo il capo " mi rispose il più anziano dei due " perché questo maledetto treno non marcia come sarebbe il suo dovere; di questo passo arriveremo con un ritardo spaventoso. "
Io non dissi niente ma pensavo: " Mai contenti, gli uomini; questo treno è addirittura entusiasmante per vigore e buona volontà, sembra una tigre, questo treno corre come probabilmente nessun treno è mai riuscito a correre, eppure eccoli qua, gli eterni viaggiatori che si lagnano ". Intanto le campagne da una parte e dall'altra fuggivano con meraviglioso slancio e la lontananza alle nostre spalle ingigantiva.
Difatti la stazione numero 1 si presentò prima che me lo aspettassi. Controllai l'orologio. Eravamo in perfetto orario. Qui, secondo il programma, io dovevo incontrare l'ingegnere Moffin per un affare importantissimo. Scesi di corsa, mi affrettai, come previsto, al ristorante della prima classe; dove infatti c'era il Moffin che aveva appena finito di mangiare.
Lo salutai, mi sedettì, ma lui non accennava menomamente al nostro affare, parlava del tempo e di altre cose indifferenti come se avesse dinanzi a sé un immenso spazio disponibile. Ci vollero buoni dieci minuti (e ne mancavano appena 7 alla partenza) perché si decidesse a tirar fuori dalla busta di pelle gli incartamenti necessari. Ma si accorse che io guardavo l'orologio
" Ha fretta, per caso, giovanotto? " mi chiese non senza ironia. " A me, per essere sincero, non piace trattar gli affari con l'acqua alla gola… "
" Giustissimo, ingegnere illustre " osai " ma il mio treno fra poco riparte e… " " Quando è così " fece lui raccogliendo i fogli con un energico gesto delle mani " quando è così, sono dolente, dolentissimo, ma ne riparleremo, se mai, quando lei, caro signore, sarà un poco più comodo. " E si alzò. " Mi scusi " balbettai " la colpa però non è mia. Sa, il treno " " Non importa, non importa " disse, sorridendo con superiorità. Feci appena in tempo a raggiungere il mio treno che si rimetteva lentamente in moto. " E pazienza " io pensavo " sarà per un'altra volta, quello che conta è di non perdere la corsa. "
Volammo attraverso le campagne e i fili telegrafici danzavano su e giù con quei loro soprassalti da epilettico, si vedevano praterie sconfinate e sempre meno case sempre meno perché ci inoltravamo nelle terre del nord le quali si aprono a ventaglio verso la solitudine e il mistero.