I due signori di prima non c'erano più. Nel mio scompartimento sedeva un pastore protestante dall'aspetto mite, che tossiva. E prati e boschi e acquitrini, mentre dietro di noi la lontananza si gonfiava con la potenza di un rimorso.
A un tratto, non sapendo cosa fare, guardai l'orologio e subito anche il pastore protestante, fra un colpo di tosse e l'altro, fece lo stesso; e scosse il capo. Ma questa volta non domandai il perché, purtroppo il perché io lo sapevo. Erano le 16:35 e già da un quarto d'ora saremmo dovuti essere arrivati alla stazione 2 la quale neppure si intravedeva all'orizzonte. Alla stazione 2 doveva aspettarmi la Rosanna. Quando il treno arrivò, sulla banchina c'era molta gente. Ma Rosanna non c'era. Avevamo un ritardo di mezz'ora. Saltai a terra, attraversai la stazione, affacciandomi al piazzale. E allora in fondo al viale, lontanissima, avvistai la Rosanna che se ne andava un poco curva.
" Rosanna, Rosanna! " chiamai a tutta voce. Ma il mio amore era oramai distante. Non si voltò neanche una volta, e io vorrei sapere: umanamente parlando, potevo io correrle dietro, potevo abbandonare il treno e tutto quanto?
Rosanna scomparve in fondo al viale, con una rinuncia in più io risalii sul direttissimo e via, attraverso le pianure boreali, verso ciò che gli uomini chiamano il destino. Che importava l'amore, dopo tutto?
Camminammo ancora giorni e giorni, i fili elettrici di fianco alle rotaie facevano la loro danza nevrastenica, ma perché il rombo delle ruote non aveva più il bell'impeto di prima? Perché all'orizzonte gli alberi si attardavano svogliati invece di scattare via come lepri colte di sorpresa?
Alla stazione numero 3 ci sarà stata appena una ventina di persone. Non vidi il Comitato che doveva venire a festeggiarmi.
Sulla banchina chiesi informazioni. " Non è venuto per caso un Comitato così e così " domandai " uomini e donne con la banda e le bandiere? "
" Sì, sì, è venuto. Ha aspettato un bel pezzo, anche. Poi ne ha avuto abbastanza e se ne è andato. "
" Quando? "
" Saranno tre quattro mesi fa " mi fu risposto. In quel mentre si udì un lungo fischio perché il treno ripartiva.
Coraggio, allora, in marcia. Il direttissimo arrancava con tutte le forze disponibili, certo non era più la travolgente galoppata di una volta. Il carbone difettoso? L'aria diversa? Il freddo? Il macchinista stanco? E la lontananza dietro di noi era una specie di abisso che a guardarlo veniva la vertigine.
Alla stazione numero 4, lo sapevo, doveva esserci la mamma. Ma quando il treno si fermò le banchine erano vuote. E nevicava.
Mi sporsi a lungo dal finestrino, guardai intorno e stavo per richiudere deluso, quando riuscii a vederla: nella sala d'aspetto, rincantucciata su una panca, tutta avvolta in uno scialle, che dormiva. Misericordia, come era diventata piccola.
Saltai dal treno e corsi ad abbracciarla. Stringendola, mi accorsi che non pesava quasi più: un mucchietto fragile di ossa. E la sentivo tremare per il freddo. " Dimmi, è un pezzo che mi aspetti? " " No, no, figlio mio " e rideva felice " non sono neanche quattro anni. " Così dicendo non guardava me, bensì fissava il pavimento intorno, quasi cercasse qualche cosa. " Mamma, cosa cerchi? " " Niente… Ma le tue valige? Le hai lasciate sulla banchina, fuori? " " Sono sul treno " dissi. " Sul treno? " e un ombra di desolazione le calò come un velo sulla fronte. " Non le hai ancora scaricate? " " Ma io… " non sapevo proprio come dirglielo. " Vorresti dire che riparti subito? Che non ti fermi neanche un giorno? " Tacque, sgomenta, e mi guardava. Io sospirai. " E va bene! Lascerò che il treno se ne vada. Adesso corro a prender le valige. Ho deciso. Rimango qui con te. Dopo tutto, mi hai aspettato quattro anni. " Di nuovo, a queste mie parole, la faccia della mamma si cambiò. Tornarono l'allegrezza ed il sorriso (il quale però non emanava più luce come prima). " No, no, non andare a prendere i bagagli, mi sono espressa male " supplicò. " Io scherzavo, sai. Io ti capisco. Non puoi fermarti in questo povero paese. Per me non val la pena. Per me non devi perdere neanche un'ora è molto meglio che tu riparta subito. Assolutamente. È il tuo dovere… Desideravo una sola cosa: rivederti. Ti ho rivisto, adesso son contenta… " Chiamai: " Facchino, facchino! (un facchino spuntò immediatamente) Ci sono da scaricare tre valige! ". " Macché valige " ripeté la mamma " Un'occasione come questa non tornerà mai più. Tu sei giovane, hai da fare la tua strada. Presto, sali in vettura. Va, va " e sorridendo con fatica immensa mi spingeva debolmente verso il treno. " Per carità fa presto, stanno chiudendo gli sportelli. " Non so come, con tutto il mio egoismo mi ritrovai nello scompartimento e mi sporgevo dal finestrino aperto, gesticolando per gli ultimi saluti.
Fuggendo il treno, lei ben presto divenne ancora più piccola di quello che effettivamente era, una figurina afflitta e immobile sul deserto marciapiedi, sotto la neve che cadeva. Poi divenne un punto nero senza volto, una minuscola formica nella vastità dell'universo; e subito svanì nel nulla. Addio.
Con un ritardo di anni e anni accumulati, siamo così di nuovo in viaggio. Ma per dove? Cala la sera, i vagoni sono gelidi, non c'è rimasto quasi più nessuno. Qua e là, negli angoli degli scompartimenti bui, siedono degli sconosciuti dalle facce pallide e dure che hanno freddo e non lo dicono.
Per dove? Quanto è lontana l'ultima stazione? Ci arriveremo mai? Valeva la pena di fuggire con tanta furia dai luoghi e dalle persone amate? Dove, dove ho messo le sigarette? ah, qui nella tasca della giacca. Certo, tornare indietro non si può.
Forza, dunque, signor macchinista. Che faccia hai, come ti chiami? Non ti conosco né ti ho mai visto. Guai se tu non mi aiuti. Sta saldo, bel macchinista, butta nel fuoco l'ultimo carbone, falla volare questa vecchia baracca cigolante, ti prego, lanciala a rotta di collo, che assomigli almeno un poco alla locomotiva di una volta, ti ricordi? via nella notte a precipizio. Ma in nome di Dio non mollare, non lasciarti prendere dal sonno. Domani forse arriveremo.
41. LA CITTÀ PERSONALE
Da questa città che nessuno di voi conosce, mando notizie, ma non bastano mai. Ciascuno di voi forse conosce o frequenta altri paesi; eppure in questo che dico nessuno mai potrà abitare tranne io. Di qui appunto l'unico ma indiscutibile interesse delle informazioni; perché questa città esiste e che possa darne precise notizie c'è uno solo. Né alcuno può dire onestamente: che mi importa? Basta che una cosa esista, anche se piccola, perché il mondo sia costretto a tenerne conto. Figurarsi poi una città intera, grande, grandissima, con quartieri vecchi e nuovi, labirinti interminabili di strade, monumenti e ruderi che si perdono nelle notti dei millenni, cattedrali traforate a filigrana, parchi (e al vespero i picchi che intorno giganteggiano stendono l'ombra loro sulle piazze dove giocarono i bambini), dove ogni pietra, ogni finestra, ogni bottega significano un ricordo, un sentimento, un'ora potente della vita!
Tutto sta, si capisce, nel saper descrivere. Perché di città sul tipo della mia ce ne sono al mondo migliaia, centinaia di migliaia; e spesso, posso ammetterlo, in questi agglomerati urbani abita uno solo, come appunto nel caso che personalmente mi riguarda. Ma in genere è come se queste città non esistessero. Quanti sanno darci soddisfacenti informazioni? Pochi. La maggioranza non sospettano neppure l'importanza dei segreti di cui sono partecipi, né si sognano di comunicarli, oppure mandano lunghe lettere zeppe di aggettivi ma quando si è finito di leggerle per lo più ne sappiamo come prima.
Io invece sì. E perdonate se può sembrare una vanteria ridicola. Poco, pochissimo, ma ogni tanto mi riesce, con grandi sforzi lo confesso, a trasmettere una idea sia pure incerta e vaga della città a cui la sorte mi ha assegnato. Di quando in quando, fra tanti miei messaggi che non vengono neppure letti fino in fondo, uno si fa ascoltare. Tanto è vero che, mosse da curiosità, piccole comitive di turisti arrivano alle porte e mi chiamano affinché io li meni in giro e faccia le adeguate spiegazioni.