Tutto questo lei è riuscita a fare, con impegno disperato non lasciando sguarnito un angolo, una fessura, da cui il ricordo potesse farsi strada. L'ha fatto. Ed è guarita. Ora è mattino, con un bel vestito azzurro che la sarta le ha appena mandato, Irene sta per uscire di casa. Fuori c'è il sole. Lei si sente sana, giovane, tutta lavata dentro, fresca come quando aveva sedici anni. Felice addirittura? Quasi.
Ma da una vicina casa viene una breve onda di suono. Qualcuno ha la radio accesa o fa andare il grammofono e una finestra è stata aperta. Aperta e poi subito chiusa.
è bastato. Sei sette note, non di più, la sigla di un vecchio motivo, la sua canzone. Su, coraggiosa Irene, non perderti per così poco, corri al lavoro, non fermarti, ridi! Ma un vuoto orrendo le si è già formato entro nel petto, ha già scavato una voragine. Per mesi e mesi l'amore, questa strana condanna, aveva finto di dormire, lasciando che Irene s'illudesse. Ora una inezia è stata sufficiente a scatenarlo. Fuori passano le macchine, la gente vive, nessuno sa di una donna che, abbandonata sul pavimento a ridosso della porta di casa come una bambina castigata, sciupandosi il bel vestito nuovo, perdutamente piange. Lui è lontano, non tornerà mai più, e tutto è stato inutile.
46. IL TIRANNO MALATO
All'ora solita cioè alle 19 meno un quarto nell'area cosidetta fabbricabile fra via Marocco e via Casserdoni, il volpino Leo vide avanzare il mastino Tronk tenuto per la catena dal professore suo padrone.
Il bestione aveva le orecchie dritte come sempre e scrutava il ristrettissimo orizzonte di quel sudicio prato fra le case. Egli era l'imperatore del luogo, il tiranno. Eppure il vecchio volpino pieno di risentimenti subito notò che non era il Tronk di un tempo, neppure quello di un mese prima, neppure il formidabile cagnaccio che aveva visto tre o quattro giorni fa.
Era un niente, il modo forse di appoggiare le zampe, o una specie di appannamento dello sguardo, o una incurvatura della schiena, o l'opacità del pelo o più probabilmente un'ombra – l'ombra grigia che è il segno terribile! – la quale gli colava già dagli occhi fino al bordo cadente delle labbra.
Nessuno certo, neppure il professore, si era accorto di questi segni piccolissimi. Piccolissimi? Il vecchio volpino che oramai ne aveva viste a questo mondo, capì, e ne ebbe un palpito di perfida gioia. " Ah ci sei finalmente " pensò. " Ci sei? " Il mastino non gli faceva più paura.
Si trovavano in uno di quegli spazi vuoti aperti dai bombardamenti aerei della guerra decorsa, verso la periferia, fra stabilimenti, depositi, baracche, magazzini. (Ma a breve distanza si ergevano i superbi palazzi delle grandi società immobiliari, a settanta-ottanta metri sopra il livello dell'operaio del gas intento a sistemare la tubazione in avaria e del violinista stanco in azione fra i tavolini del Caffè Birreria Esperia là sotto i portici, all'angolo.) Demoliti i moncherini superstiti dei muri, a ricordare le case già esistite non restavano qua e là che dei tratti di terreno coperti di piastrelle, il segno della portineria forse, o cucina a pianterreno o forse anche camera da letto di casa popolare (dove un tempo di notte palpitarono speranze e sogni e forse un bambino nacque e nelle mattine d'aprile, nonostante l'ombra tetra del cortile, di là usciva un canto ingenuo e appassionato di giovanetta; e alla sera, sotto una lampadina rossastra, gente si odiò o si volle bene). Per il resto, lo spazio era rimasto sgombro e sùbito, per la commovente bontà della natura così pronta a sorridere se appena le lasciamo un po' di spazio, si era andato ricoprendo di verde, erba, piantine selvatiche, cespugli, a similitudine delle beate valli lontane di cui si favoleggia. Tratti di prato vero, coi loro fiorellini, avevano perfino tentato di formarsi, dove stanchi noi distenderci, le braccia incrociate dietro il capo, a guardare le nuvole che passano, così libere e bianche, sopra le soperchéerie degli uomini.
Ma nulla la città odia quanto il verde, le piante, il respiro degli alberi e dei fiori. Con bestiale accanimento quindi erano stati scaricati là mucchi di calcinacci, immondizie, residuati osceni, fetide putrefazioni organiche, scoli di morchia. E il lembo di campagna ben presto era ingiallito trasformandosi in uno sconvolto letamaio; dove tuttavia le pianticine e le erbe ancora lottavano, sollevando verticalmente gli steli fra la sozzura, in direzicne del sole e della vita.
Il mastino avvistò immediatamente l'altro cane e si fermò a osservarlo. E subito si accorse che qualcosa era cambiato. Il volpino oggi aveva un nuovo modo di fissarlo, non timido, non rispettoso, non timorato come al solito. Con un luccichio beffardo nelle pupille, anzi
Calda sera d'estate. Una floscia caligine giaceva ancora sulla città fra le torri di calcestruzzo e di cristallo abitate dall'uomo, che il sole calante illuminava. Tutto sembrava stanco e svogliato, anche le invereconde automobili americane color ramarro, anche le vetrine degli elettrodomestici, di solito così ottimiste, anche la energetica bionda sorridente dal cartellone pubblicitario del dentifricio Klamm (che, se usato giornalmente, trasformerebbe la nostra esistenza in paradiso, vero Mr. MacIntosh, direttore generale del reparto pubblicità e public relations?).
Il professore immediatamente vide sul dorso del suo cane formarsi una macchia oblunga e scura, segno che la bestia stava alterandosi e rizzava il pelo.
Nello stesso istante, senza essere stato in alcun modo provocato, il volpino si avventò silenzioso alla vendetta e addentò rapidissimo il mastino alla gamba posteriore deatra.
Tronk ebbe uno scarto a motivo del dolore ma per qualche frazione di secondo restò come incerto, solo cercava di scuotere via il nemico, agitando la gamba. Poi, inopinatamente ritrovò l'antico impeto selvaggio. La catena sfuggì di mano al professore.
Dietro al cane Leo, un altro piccolo bastardo, suo com pagno, vagamente simile a un segugio, di solito timido e spaurito, balzò a mordere il mastino. E per una frazione di secondo lo si vide che affondava i denti in un fianco del tetrarca. Quindi ci fu un groviglio mugolante che si dibatteva nella polvere. " Tronk, qua, Tronk! " chiamò smarrito il professore annaspando con la destra sopra quel frenetico subisso; e cercava di afferrare la catena del suo cane. Ma senza la decisione necessaria, spaventato dal furore della lotta.
Fu breve. Si sciolsero da soli. Leo, mugolando, balzò via e pure il suo compagno si distaccò da Tronk, arretrando, con il collo insanguinato. Il mastino sedette, e ansimava con ritmo impressionante, la lingua pendula, sopraffatto dallo sfinimento fisico.
" Tronk, Tronk " supplicò il professore. E cercò di prenderlo per il collare.
Ma, non visto da alcuno, avanzava alle spalle, libero e solo, Panzer, il cane lupo del garage vicino, il fuorilegge, che Tronk aveva fino a quella sera tenuto a bada col suo solo aspetto. Anche lui veniva in certo modo a vendicarsi. Perché mai Tronk lo aveva provocato né gli aveva fatto male, eppure la sua semplice presenza era stata un oltraggio quotidiano, difficile da mandare giù. Troppe volte lo aveva visto passare, dinoccolato, davanti ail'ingresso del garage, e guardare dentro con proterva grinta come per dire: " C'è mica nessuno qui, alle volte, che abbia voglia di attaccare lite? ".
Il professore se ne accorse tardi. " Ehi " " gridò " chiamate questo lupo! Ehi, del garage! " Il pelo nero e irto, il lupo aveva un aspetto orribile. E chissà come, questa volta il mastino al suo confronto sembrava rattrappito.
Tronk fece appena in tempo ad avvistarlo con la coda dell'occhio. Il lupo eseguì un balzo rettilineo, protendendo i denti, e d'un subito il mastino rotolò fra i calcinacci e le scorie con quell'altro attaccato selvaggiamente alla sua nuca.
Sapeva il professore che è quasi impossibiie dividere due cani di quella fatta che si impegnano per la vita e per la morte. E non fidando nelle proprie forze si mise a correre per avvertire e chiedere soccorso.