Nel frattempo anche il volpino e il segugio ripresero coraggio, si lanciarono alla macellazione del tiranno che stava per essere sconfitto.
Ebbe Tronk un'ultima riscossa. E con divincolamento furioso riuscì a prendere coi denti il naso del lupo. Ma subito cedette. L'altro, arretrando a scatti, si liberò e prese a trascinarlo riverso tenendolo sempre per la nuca.
A quei mugolamenti spaventosi gente intanto si affacciava alle finestre. E dalla parte del garage si udivano le grida del professore soverchiato dagli avvenimenti.
Poi, di colpo, il siienzio. Da una parte il mastino che si risollevava con fatica, la lingua tutta fuori, negli occhi l'umiliazione sbalordita dell'imperatore di colpo tratto giù dal trono e calpestato nella melma. Dall'altra, il lupo, il volpino e il falso segugio che retrocedevano con segni di sbigottimento.
Che cosa li aveva sbaragliati quando già stavano assaporando il sangue e la vittoria? Perché si ritiravano? Il mastino tornava a far loro paura?
Non il mastino Tronk. Bensì una cosa informe e nuova che dentro di lui si era formata e lentamente da lui stava espandendosi come un alone infetto.
I tre avevano intuito che a Tronk doveva essere successo qualche cosa e non c'era più motivo di temerlo. Ma credevano di addentare un cane vivo. E invece l'odore insolito del pelo, forse, o del fiato, e il sangue dal sapore repellente, li aveva ributtati indietro. Perché le bestie più ancora che i luminari delle cliniche percepiscono al più lieve segno l'avvicinarsi della presenza maledetta, del contagio che non ha rimedio. E il lottatore era segnato, non apparteneva più alla vita, da qualche profondità recondita del corpo già si propagava la dissoluzione delle cellule.
I nemici si sono dileguati. È solo, adesso. Limpidi e puri nella maestà del vespero si sollevano intanto dalla terra, paragonabili a fanfare, i muraglioni vitrei dei nuovi palazzi e il sole che tramonta li fa risplendere e vibrare come sfida, sullo sfondo violetto della notte che dalla opposta parte irrompe. Essi proclamano le caparbie speranze di coloro che, pur distrutti dalla fatica e dalla polvere, dicono " Sì, domani, domani ", di coloro che sono il galoppo di questo mondo contristato, le bandiere! Ma per il satrapo, il sire, il titano, il corazziere, il re, il mastodonte, il ciclope, il Sansone non esistono più le torri di alluminio e malachite, né il quadrimotore in partenza per Aiderabad che sorvola rombando il centro urbano, né esiste la musica trionfale del crepuscolo che si espande pur nei tetri cortili, nelle fosse ignominiose delle carceri, nei soffocanti cessi incrostati d'ammoniaca.
Egli è intensamente fisso a quell'oasi stenta e con gli sguardi la divora. Il sangue che aveva cominciato a gocciolare da una lacerazione al collo si è fermato coagulandosi. Però fa freddo, un freddo atroce. Per di più è venuta la nebbia, lui non riesce più a vedere bene. Strano, la nebbia in piena estate. Vedere. Vedere almeno un pezzo della cosa che gli uomini usano chiamare verde: il verde del suo regno, le erbe, le canne, i miseri cespugli (i boschi, le selve immense, le foreste di querce e antichi abeti).
Il professore è di ritorno e si consola vedendo il lupo e gli altri due barabba che si allontanano spauriti. " Eh il mio Tronk " pensa orgoglioso. " Eh, ci vuol altro! " Poi lo vede laggiù seduto, apparentemente quieto e buono.
Un cuccioletto era, quattro anni fa soltanto, che si guardava gentilmente intorno, tutto doveva ancora cominciare, certo avrebbe conquistato il mondo.
L'ha conquistato. Guardatelo ora, grande e grosso, il cagnazzo, petto da toro, bocca da barbaro dio azteco, guardatelo l'ispettore generale, il colonnello dei corazzieri, sua maestà! Ha freddo e trema.
" Tronk! Tronk! " lo chiama il professore. Per la prima volta il cane non risponde. Nei sussulti del cuore che rimbomba, pallido del terribile pallore che prende i cani i quali erroneamente si pensa che pallidi non possano diventare mai, egli guarda laggiù, in direzione della foresta vergine, donde avanzano contro di lui, funerei, i rinoceronti della notte.
47. IL PROBLEMA DEI POSTEGGI
Possedere un'automobile è una bella comodità, certo. Non è però una vita facile.
Nella città dove vivo, raccontano che una volta adoperare un'automobile fosse una cosa semplice. I passanti si scansavano, le biciclette procedevano ai lati, le strade erano pressoché deserte, soltanto qua e là i mucchietti verdi lasciati dai cavalli; e ci si poteva fermare a volontà, anche nel mezzo delle piazze, non c'era che l'imbarazzo della scelta. Così dicono i vecchi, con un malinconico sorriso, carico di reminiscenze.
Sarà vero? O non sono che leggende, le fantastiche fole che l'uomo costruisce quando sulla casa sua la mestizia scende ed è bello immaginare che non sempre la vita sia stata spinosa come oggi, ma ci fosse requie e sere limpide? (Le braccia appoggiate al davanzale, l'animo quieto, rimirando il mondo là sotto che si addormentava dopo la giornata di lavoro, e intanto vaghe canzoni si perdevano nella lontananza, vero?, e la graziosa testa di lei che pesava dolcemente sulla spalla, socchiuse le labbra nel rapimento del vespero, e le stelle sopra di noi, le stelle!) Ciò affinché sia possibile sperare che qualcosa dei lontani tempi ritorni e come allora il raggio del sole mattutino ci risvegli battendo sull'orlo del ricamo?
Oggi invece, o amici, è una battaglia. La città è fatta di cementO e di ferro, tutta a spigoli duri che si innalzano a picco e dicono: qui no, qui no. Di ferro bisogna essere anche noi, per viverci, e nell'interno del corpo non avere viscere tènere e calde, bensì blocchi di calcestruzzo, una pietra scabra del peso di un chilogrammo virgola due al posto del cosiddetto cuore, ridicolo strumento démodé.
Quando venivo in ufficio a piedi o con il tram, me la potevo prendere comoda, relativamente. Oggi no, che vengo in automobile. Perché l'automobile bisogna pur lasciarla in qualche sito e alle ore otto del mattino trovare un posto libero lungo i marciapiedi è quasi un'utopia.
Perciò mi sveglio alle sei e mezzo, alle sette al più tardi: lavarsi, farsi la barba, la doccia, una tazza di tè bevuta a strangolone, poi via di gran carriera, pregando Iddio che i semafori siano tutti verdi.
Eccoci. Con la miserabile ansia degli schiavi, il mio prossimo, uomini e donne, formicola già per le strade del centro, anelando a entrare il più presto possibile nella sua prigione quotidiana. (Seduti ai tavoli e ai deschetti dattilografici, un poco curvi, ahimè, guardateli fra poco, migliaia e migliaia, costernante uniformità di vite che dovevano essere romanzo, azzardo, avventura, sogno, ricordate i discorsi fatti da ragazzi al parapetto dei fiumi che di sotto andavano verso gli oceani?) E le vie lunghissime e diritte hanno già da una parte e dall'altra una ininterrotta fila di automobili ferme e vuote, a perdita d'occhio.
Dove troverò un posto per mettere la mia? La macchina, comperata d'occasione, ce l'ho da pochi mesi, non sono ancora pratico abbastanza, e di posteggi esistono almeno seicentotrentaquattro categorie diverse, un labirinto dove anche i vecchi lupi del volante si perdono. Ciascun muro ha i suoi cartelli indicatori, è vero, ma sono stati fatti di dimensioni piccole per non turbare la monumentalità, come si dice, delle antiche strade. E poi chi sa decifrare le minime varìazioni nel colore e nel disegno?
Io giro, cercando, nelle straduzze laterali col mio macinino sul quale incalzano da dietro cateratte di camion e furgoni chiedendo via libera con barriti orrendi. Dove c'è un posto? Laggiù, come miraggio di laghi e fontane al beduino del Sahara, un intero lunghissimo fianco di un maestoso viale si offre, completamente libero. Illusione. Proprio i lunghi tratti sgombri che dovrebbero rallegrarci l'animo sono i più infidi. Troppa grazia. Si può giurare che c'è sotto qualche insidia. Quello difatti è spazio tabù perché ivi sorge il babelico palazzo del Ministero delle Tasse. Lasciare là la propria macchina procurerebbc denunce, sequestri, processi dispendiosi e complicati, in certi casi perfino condanne a pene detentive. Di tanto in tanto però se ne vedono, di automobili lasciate là senza custodia, poche, ma se ne vedono: in genere carrozzerie fuori serie, brani superstiti di equivoche ricchezze, stranamente oblunghe e dal muso scellerato. Chi ne sono i proprietari, o ladri? Sono i naufraghi della vita che non hanno più niente da perdere, i disperati che sfidano la legge e ormai tentano il tutto per il tutto.