«Vuol dire che aveva paura?»
«Sì, proprio così. C’era qualcosa… qualcuno che lo terrorizzava. Non usciva quasi più dalla sua stanza. Quando era partito era un ragazzo sano e robusto; adesso era magro come un chiodo e tremava come una foglia. Non voleva uscire da quella stanza per niente al mondo. Si era portato su il mio vecchio fucile e stava seduto lì, a guardare dalla finestra. Lo si poteva vedere sempre allo stesso posto, giorno e notte, a scrutare l’orizzonte.»
«Si aspettava di veder arrivare qualcuno?» chiese Weiss. «Temeva che qualcuno l’avesse seguito?»
Il vecchio continuò a premere il terreno con la zappa, osservando alternativamente la terra e la zappa. Poi alzò lo sguardo e osservò Weiss: Weiss con i suoi lineamenti seri e pesanti, con i suoi occhi profondi e comprensivi.
«Venga», disse. «Le faccio vedere una cosa.»
Weiss lo seguì fino in fondo al campo, su un terreno secco e crostoso. L’uomo procedeva lentamente, curvo e con lo sguardo rivolto in basso, appoggiandosi al manico della zappa per aiutarsi. Weiss dovette accorciare il passo per non superarlo.
Arrivarono a un capanno degli attrezzi costruito con vecchie assi inchiodate e un tetto in lamiera ormai arrugginito, non più di due metri per due. La porta cigolò quando il vecchio l’aprì.
«Dopo un po’ di tempo ha iniziato a stare qui.»
«Suo figlio?»
Ridder annuì. «Portava il fucile con sé e stava qui per ore, anche di notte a volte.»
L’espressione di Weiss non cambiò. Ma s’immaginò il giovane Ridder accucciato in quel buco, tremante, con il fucile sempre pronto.
«Mia moglie dice che dovrei buttarlo giù, adesso. Lo penso anch’io, ma non ci riesco, non so perché.»
Il vecchio tenne la porta aperta mentre Weiss si abbassava per riuscire a entrare in quello spazio angusto. All’interno, pur stando piegato, sentiva la sporca lamiera del tetto sfiorargli i capelli. Il rumore della strada era attutito e l’oscurità fitta. Ci volle qualche istante prima che i suoi occhi si abituassero. Allora si guardò intorno, e vide cosa c’era sulle pareti.
«Ha fatto tutto coi chiodi», stava dicendo il vecchio all’esterno, ancora appoggiato alla zappa. Si appoggiava e guardava lontano, verso le colline. «Vecchi chiodi trovati per terra. Poi ne ha colorato una parte con calce e pietra rossa.»
A Weiss sembrò di percepire una punta di orgoglio paterno nella voce dell’uomo, ma continuò a osservare le pareti.
Harry Ridder aveva inciso qualcosa nel legno, per lo più motivi e disegni, ma anche parole. Aveva intagliato con fatica le assi marce con spirali accanto a figure, figure sopra nomi. Ogni soggetto si inseriva perfettamente in quello precedente in modo da sfruttare ogni centimetro delle pareti, da coprire tutto lo spazio fra le cesoie e la falce e il rastrello, appesi ai loro ganci arrugginiti. Weiss girò lentamente su se stesso, con la testa piegata, e si rese conto che le pareti erano completamente decorate.
«Sembra quasi un lavoro artistico, vero?» disse la voce orgogliosa del vecchio dall’esterno.
Weiss non rispose. All’idea di quel ragazzo chiuso per ore in quel buco, il suo stomaco si stringeva e la nausea lo assaliva. Un disperato che copre ossessivamente tutto lo spazio disponibile per raccontare la sua storia, come se queste pareti fossero l’ultimo pezzo di carta rimasto al mondo. Era pura follia.
Weiss colse il rumore del traffico in lontananza. Chiuso lì dentro, al buio, si rese bruscamente conto di quanta luce c’era fuori, quanta sana luce del giorno. Si piegò di più per avvicinarsi alle pareti, cercando di distinguere un disegno dall’altro, di separare le lettere dalle forme.
Scoprì il volto di una donna dai capelli lunghi che si trasformavano in onde e le onde in un nome, «Julie Angel». Il nome poi diventava una foresta, una casa, un lupo che ululava alla luna. Gli occhi di Weiss seguirono il tracciato, mentre il sudore gli colava dalle tempie e il suono del suo stesso respiro gli rimbombava nelle orecchie. «Julie», trovò ancora quel nome; e poi anche «Angel», che diventava l’immagine di un vero angelo. Le ali dell’angelo si trasformavano in un complesso labirinto circolare in cui si annidavano altre parole: «Vita», «Speranza», «Morte». Non c’era un filo logico che Weiss riuscisse a cogliere.
Continuò a osservare e si soffermò su un punto in un angolo, dove il sole entrava attraverso un buco irregolare. Intorno al buco il legno era più scuro, e le incisioni avevano preso uno sgradevole color marrone.
Il foro d’uscita, pensò Weiss.
Harry Ridder si era fatto saltare le cervella proprio in quel capanno. In quel punto il proiettile, dopo aver attraversato la testa del ragazzo, aveva trapassato la parete di legno del capanno. E la macchia marrone, be’, era tutto ciò che restava di Harry.
Ma c’era questo di strano: più Weiss guardava, più gli sembrava che il foro e la macchia che lo circondava fossero il centro di tutto il bizzarro ciclo murale, come se tutto ciò che era stato incìso sulle assi all’intorno fosse pensato per condurre lo sguardo proprio in quel punto. Vi si avvicinò in ginocchio, sul pavimento di terra battuta. Si chinò per avvicinarsi ancora di più. Passò le dita sui bordi scheggiati e si accorse che vi era incisa una parola. La sentì sotto i polpastrelli: una sola parola perfettamente adattata ai contorni del legno scheggiato. Come se il giovane Harry avesse calcolato, nel momento in cui si era infilato il fucile in bocca, il punto in cui il proiettile sarebbe uscito dal suo cranio. Incredibile, pensò Weiss. Socchiuse gli occhi, la vista ostacolata dal raggio di sole e dal pulviscolo.
La parola — il senso della parola — gli si chiarì all’improvviso. Weiss fu scosso da un sussulto. Sentì che gli mancava il respiro, sentì il sangue defluire dal viso. Rimase a osservare quell’unica parola attraverso le palpebre socchiuse, per un momento lunghissimo. La lesse più e più volte.
SHADOWMAN.
15
Anche Sissy Truitt faceva parte della squadra di Weiss. Era una bionda dai lineamenti delicati, con una voce gentile e vellutata e miti occhi azzurro scuro. Una delle migliori investigatrici dell’Agenzia, soprattutto quando si trattava di interrogare le persone. Era così dannatamente persuasiva e materna, che tutti le confessavano qualsiasi segreto. Weiss, naturalmente, era pazzo di lei; se solo avesse potuto, l’avrebbe avvolta con il suo stesso corpo per proteggerla dalle intemperie. Un esempio estremo del suo atteggiamento pateticamente cavalieresco verso le donne in generale. Sissy era molto paziente con lui; lo gratificava con le sue risate argentine, i suoi sorrisi materni, i suoi affettuosi cenni del capo, come se il boss fosse un fedele sanbernardo che la seguiva ovunque per proteggerla. Era fatta così, era buona con tutti.
Il grande ufficio di Weiss, con le imponenti finestre sulla città, l’enorme scrivania e l’altrettanto enorme proprietario, sembrava sempre intimidirla un po’ quando entrava, con quel suo fare mite e l’aspetto da scolaretta, tutto gonne a pieghe, cardigan e similia. Teneva la cartelletta del caso in corso stretta al petto con entrambe le braccia, come se fosse il libro di algebra e lei stesse per essere interrogata.
«Oh», disse lanciando un’occhiata a Weiss e correndo a sedersi sul bracciolo di una delle poltroncine per i clienti. «Che cosa ti è successo, Scott?»
Weiss in effetti aveva il viso pallido e tirato per la mancanza di sonno. Shadowman. Quel nome lo ossessionava. Ma, nonostante adorasse essere oggetto delle attenzioni di Sissy, liquidò la domanda con un gesto della mano. Si appoggiò bene all’indietro sulla poltrona, l’enorme poltrona girevole dall’alto schienale. «Che cos’hai scoperto?» le chiese. «Finora tutto quello che so è che Harry Ridder faceva il giardiniere da Cameron Moncrieff.»