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Si chiamava Rip. Era alto più di uno e novanta e pesava centoventi chili, quasi tutti di muscoli. Nella vita la sua occupazione principale era stata ammazzare di botte, di solito con un cric o a mani nude, i motociclisti rivali. In carcere, probabilmente per l’assenza di altri motociclisti o forse semplicemente per la mancanza di cric, si era dedicato ad altri passatempi. Uno di questi era la creazione di armi. Nelle ultime due settimane, per esempio, aveva costruito quello che in galera chiamano una «spada»… un vero e proprio pugnale, letale come un coltello vero. Lo aveva realizzato con un giornale arrotolato che aveva cosparso con i propri escrementi. Quando questi si erano induriti, aveva passato la punta sulla parete per affilarla. Poi aveva ripetuto il processo. In quattordici giorni la lama era diventata dura come l’acciaio e affilata come quella di un vero coltello. Rip l’aveva nascosta dietro al gabinetto, pronto a usarla per soddisfare il suo secondo passatempo: lo stupro. Si trattava di un vero e proprio bruto, che godeva nel terrorizzare i compagni fino a trasformarli in schiavi sessuali. Quando aveva raggiunto il suo scopo ne faceva collezione o li scambiava con altri ceffi del suo calibro per sigarette, cibo o altro.

Rip diede un’occhiata all’uomo dall’aspetto debole e dalla pelle chiara che era appena entrato in cella e sorrise, vedendo in lui carne fresca per la sua collezione.

Ironia della sorte, in verità, perché l’uomo chiamato Ben Fry, dando un’occhiata a Rip, vide in lui il biglietto per andarsene da lì.

Tali propositi incrociati portarono a una notte insonne per tutti e due, impegnati a sorvegliarsi reciprocamente. A un certo punto, mentre era sdraiato sulla branda e fingeva di dormire, l’uomo chiamato Ben Fry si trovò addosso Rip, con un sorriso beffardo in volto e l’arma improvvisata in mano.

«Ci sarà merda sul mio cazzo, stanotte, o sangue sul mio coltello. Scegli», grugnì Rip.

E l’uomo chiamato Ben Fry scelse. Quando le guardie arrivarono al mattino, il gigantesco Rip giaceva sul pavimento coperto di sangue ed escrementi, praticamente in coma.

Dopo tre settimane in isolamento, l’uomo chiamato Ben Fry uscì da Pelican Bay — esattamente come aveva previsto — diretto a North Wilderness.

Era ormai giugno, il mese in cui Jim Bishop era giunto a Driscoll sulla sua moto, quando l’uomo chiamato Ben Fry arrivò alla nuova residenza forzata. La cella misurava tre metri per due e aveva una finestra, che però non si apriva ed era troppo alta perché si vedesse qualcosa. C’erano anche un giaciglio di cemento e un lavabo e un gabinetto in acciaio con controllo automatico dell’acqua. Lo sciacquone, per esempio, di solito veniva attivato tre volte al giorno, questo per impedire ai galeotti di usarlo a loro piacimento e comunicare attraverso le tubature. Anche le porte erano comandate a distanza da una postazione esterna ai bracci di detenzione. Erano costituite da una fitta rete in acciaio che rendeva difficile sfondarla tirando oggetti, vedere all’esterno o parlare con i compagni vicini, a causa del rimbombo. L’uomo chiamato Ben Fry passava circa ventitré ore al giorno in questa cella. Raramente parlava o vedeva altri esseri umani.

Le celle erano allineate in gruppi di otto (quattro per lato) in sei bracci disposti a semicerchio intorno a una cabina dai vetri corazzati. Da quella postazione, le guardie vedevano direttamente i corridoi e sorvegliavano le celle attraverso quattro monitor, su cui apparivano a turno le immagini delle varie telecamere. Su un altro monitor scorrevano le immagini del cortile dove i detenuti trascorrevano l’ora d’aria. L’uomo chiamato Ben Fry era al corrente di tutto questo, perché aveva studiato e memorizzato le piante e i vari sistemi della struttura.

Aveva a disposizione un’ora d’aria al giorno, da trascorrere in cortile. Quando la porta della cella si apriva automaticamente, procedeva da solo lungo il corridoio, sempre sorvegliato dagli occhi indiscreti delle telecamere. Il cortile era poco più grande della cella, tre metri e mezzo per tre; era come una scatola di cemento armato con un coperchio di rete metallica, da cui filtrava abbastanza luce solare per trasformarlo in un forno. L’uomo chiamato Ben Fry camminava lungo il perimetro, eseguiva flessioni sulle braccia, salti e altri esercizi, poi rientrava. Gli era permesso uscire dalla cella altre tre volte alla settimana, per la doccia.

Ma per la maggior parte del tempo — ventitré ore al giorno — il suo orizzonte era la cella. La cella e il tempo, la pianura di tempo vuoto che si stendeva all’infinito davanti a lui. Per ventitré ore al giorno, l’uomo chiamato Ben Fry stava sdraiato sul giaciglio di cemento. Da lì saliva sulla torre e osservava dall’alto la distesa del tempo, senza più preoccupazioni. In alcuni di quei bianchi momenti senza fine, la torre sembrava talmente reale da fargli temere di essere sul punto di impazzire. Ma questa sensazione era meglio di ciò che provava quando era giù, nel mondo, senza pensare, a osservare il vuoto davanti a sé. Ed era meglio del mondo rosso, strisciante e beffardo dei suoi sogni.

Trascorse una settimana così. Poi, un giorno, due guardie entrarono in cella, lo ammanettarono, lo fecero inginocchiare e gli bloccarono le caviglie. Tirandolo poi insieme per le braccia, lo trascinarono lungo il corridoio fino alla cabina di controllo.

Fu un momento importante per lui, perché per circa venticinque secondi, mentre lo trascinavano, poté scorgere due dei monitor attraverso i vetri della postazione. Vide l’immagine di una cella e contò per quanto tempo rimaneva sullo schermo. Dieci secondi. Poi le guardie lo condussero via lungo un altro corridoio.

Lo portarono in una stanza dove c’era una sedia di metallo fissata al pavimento e rivolta verso una parete trasparente antiproiettile. Le guardie lo fecero sedere sulla sedia e gli legarono le caviglie ad anelli infissi al suolo. Poi lo ammanettarono ai braccioli e attesero alle sue spalle.

Dall’altra parte della parete trasparente si aprì una porta e un uomo entrò. Era magro e indossava un abito costoso, grigio scuro. Arricciò il naso guardandosi in giro, tenendo i gomiti stretti ai fianchi e le mani chiuse una nell’altra. Sembrava una persona pignola e sprezzante.

L’uomo magro si sedette davanti all’uomo chiamato Ben Fry e parlò. La voce, alta e nasale, venne trasformata dal microfono in un suono intermittente, simile a quello emesso da un robot.

«Come va oggi, signor Fry?» chiese.

L’uomo chiamato Ben Fry annuì mantenendo uno sguardo assente, un’espressione ebete.

«Ho saputo che era qui, e volevo essere sicuro, prima di procedere come stabilito. Ma ora lo farò.»

L’uomo chiamato Ben Fry annuì nuovamente.

«Sono contento di vedere che sta bene», aggiunse l’altro. «Allora…» concluse, e si alzò per andarsene.

Le guardie slegarono dalla sedia l’uomo chiamato Ben Fry e gli fecero ripercorrere il corridoio. Poté vedere di nuovo i monitor nella cabina delle guardie e riconobbe la sua cella dalla posizione in cui aveva messo la coperta. Quando la vide apparire, lanciò uno sguardo all’orologio appeso alla parete.

In cella, le guardie gli tolsero le manette e i blocchi delle caviglie e gli ordinarono di togliersi i vestiti. Quando fu nudo, lo ispezionarono, dentro e fuori.

Poi, ci fu di nuovo e soltanto la cella. La cella e il tempo. I secondi, i minuti, le ore. In silenzio, isolato, osservato.

Sapeva che sarebbe durata ancora per un po’. Poche distrazioni, nessun piacere. Niente libertà, niente gentilezza. Giorni in gabbia, notti in gabbia. La cella, il tempo e la torre.

Esattamente come aveva previsto.