Era una buona tecnica. Aveva sempre funzionato. Sempre, tranne una volta.
Salì quindi sulla torre e inspirò una boccata d’aria. Aprì gli occhi e premette il bisturi sulla pelle anestetizzata della coscia, lacerandola. Si lasciò sfuggire un verso gutturale. L’incisione non era più lunga di tre centimetri, ma nonostante la lidocaina il dolore era insopportabile, i nervi erano in fiamme. Estrasse la lama. Passò qualche istante, poi il sangue iniziò a uscire a fiotti, colando lungo l’interno della coscia. Con gli occhi fissi sulla ferita, il respiro accelerato, l’uomo chiamato Ben Fry lasciò cadere il bisturi dalle dita tremanti e ne sentì il tonfo sordo sul telo di plastica.
All’esterno echeggiò un clacson. La pioggia notturna picchiava sui vetri. Respirando affannosamente, l’uomo chiamato Ben Fry proseguì l’operazione. Da un’altra vaschetta prese una capsula poco più grande della nocca del suo pollice, di un materiale morbido e gelatinoso, simile a quello delle lenti a contatto. Ma in questo caso era rigido e spigoloso alle estremità, come se avessero scordato di smussare una parte in eccesso. Metà della capsula conteneva una sostanza rossa, l’altra metà una sostanza azzurra. L’aveva fatta preparare in una città e aveva acquistato il contenuto in altre due.
L’inserimento della capsula nel corpo fu anche più doloroso dell’incisione. A un certo punto, mentre la premeva a fondo nel tessuto adiposo, l’agonia sembrò avere il sopravvento. Gli occhi si velarono, e quasi perse i sensi. Emise un altro gemito sordo, pensò alla torre, vide il dolore scarlatto dalla torre fredda, azzurra, lontana.
L’operazione era conclusa. Avvertì una sorta di risucchio mentre estraeva il dito dalla ferita umida. La capsula era inserita.
Prima di ricucirsi, fu costretto ad attendere che le mani smettessero di tremare. Quando ebbe finito afferrò, con una velocità quasi frenetica, l’ultima siringa, quella con la morfina.
Qualche istante dopo era sdraiato su un fianco, accoccolato come un bambino, le mani sotto la guancia. Dormì a lungo. Tutti i suoi sogni furono incubi.
Trascorsa una settimana, tolse i punti; la cicatrice era pulita e i peli iniziavano a ricrescere. Passò un’altra settimana, ma la cicatrice era ancora troppo rossa ed evidente. Aspettò una settimana ancora, prendendo gli antibiotici per evitare un’infezione. Marzo finì, aprile iniziò, e l’uomo chiamato Ben Fry tornò all’appartamento di Penny Morgan.
Vi giunse la sera di un lunedì, poco dopo le sei. Sapeva che la ragazza sarebbe rientrata di lì a una mezz’ora. Seduto vicino alla finestra, l’avrebbe vista arrivare, assicurandosi così che fosse sola. Si sarebbe quindi spostato in cucina, in modo da non essere visto finché la ragazza non avesse chiuso la porta. L’uomo indossava una comoda tuta blu scuro, che gli lasciava libertà d’azione. La pistola era inserita nella cintura. Poteva estrarla in un attimo, e in un altro essere abbastanza vicino per sparare a Penny alla testa. Quando fosse caduta, le avrebbe sparato altre due volte, per sicurezza.
Non aveva preso alcuna precauzione nell’acquisto dell’arma, una calibro 38 che un tizio gli aveva venduto estraendola dal bagagliaio di un’auto. Non aveva il silenziatore: la detonazione sarebbe stata fragorosa e sicuramente qualche vicino avrebbe sentito. E sicuramente, in una zona così rispettabile, avrebbe chiamato la polizia. Proprio quello che l’uomo chiamato Ben Fry voleva. Nessuna caccia, nessuna lunga e logorante indagine. L’avrebbero arrestato a un isolato o due dalla scena del delitto.
Mentre aspettava l’arrivo di Penny, mise a soqquadro l’appartamento. Vuotò i cassetti, strappò la biancheria dal letto, gettò i libri degli scaffali a terra. Trovò alcuni oggetti d’oro, una collana di perle; anche del denaro, circa quaranta dollari. Inserì tutto in un sacchetto di plastica che aveva con sé, poi lo infilò nella tasca dei pantaloni.
Venne così il momento di tornare alla finestra. Si sedette nelle stesso punto occupato da Penny quando telefonava al fidanzato. Le tendine lo nascondevano, ma non gli impedivano di vedere all’esterno. Scrutò i passanti, tre piani più in basso: Penny non c’era. Era ancora troppo presto.
Con un sospiro si predispose all’attesa, senza staccare gli occhi dalla strada. Solo una volta il suo sguardo si spostò sulle istantanee incorniciate: Penny che rideva abbracciata a David, Penny con il golden retriever della sorella, Penny con i genitori, la sorella, il cane, sorridenti davanti all’albero di Natale.
L’uomo chiamato Ben Fry distolse gli occhi, li riportò sulla strada. Automaticamente, cominciò a pensare alle fasi successive dell’operazione, una per una, per controllarle. Si tranquillizzò.
E finalmente, eccola. Erano le 18.27 e Penny Morgan stava arrivando a piedi, salendo dalla fermata del tram verso casa. Aveva con sé la grande borsa che usava come portadocumenti. Il tessuto bianco delle tendine filtrava la sua immagine, rendendola sfocata, ma l’uomo chiamato Ben Fry la vedeva ugualmente e rimase lì seduto a guardare la ragazza finché lei non entrò nell’edificio.
Allora si alzò e si mise ad attenderla sulla soglia della cucina, esattamente come aveva previsto.
Penny Morgan si fermò nell’atrio a ritirare la posta, sfogliandola mentre saliva le scale. Era stanca e un po’ giù di morale; aveva cominciato a pensare che lavorare in una galleria d’arte non fosse così eccitante come aveva sperato.
Sospirò. Nella posta, solo fatture e volantini. Li stipò nella tasca esterna della borsa e armeggiando un po’ estrasse le chiavi. Aveva raggiunto il pianerottolo del terzo piano.
Percorse il corridoio fino alla sua porta e aprì le tre serrature: il chiavistello, la serratura di sicurezza e la sbarra orizzontale. Pensò che avrebbe chiamato David prima di cena e si ripromise di non lamentarsi o lasciarsi prendere dall’irritazione; aveva solo bisogno di sentire la sua voce per risollevare il morale. Non le piaceva restare sola a casa la sera; avrebbe voluto che David finisse in fretta gli studi, così avrebbero potuto sposarsi e iniziare la loro vita insieme.
Aprì l’uscio con una spinta. Era quasi Pasqua, pensò. Fra poche settimane David sarebbe venuto a casa per le vacanze; sarebbero stati insieme quasi un mese intero. A quel pensiero fece un piccolo sorriso, mentre entrava nell’appartamento.
PARTE PRIMA
IL CASO DELLA VERGINE SPAGNOLA
1
Il giorno in cui Jim Bishop e la sua moto fecero il loro rombante ingresso nelle terre del Nord, c’erano più di 40 gradi. Era mezzogiorno e il sole picchiava senza pietà. Le sagome marrone delle montagne brulle si stagliavano su entrambi i lati della superstrada, il cui asfalto, all’orizzonte, pareva liquefatto dal calore.
Bishop diede gas, e l’Harley Road King toccò i centoventi all’ora, vibrando sotto di lui. Era un mezzo elegante, pensato per viaggi lunghi e confortevoli, ma Bishop era ormai distrutto. Sotto la giacca di pelle, la T-shirt grigia era nera di sudore; sotto il casco, i capelli erano fradici; gli occhiali, come il parabrezza, erano ricoperti di quelli che i motociclisti chiamano «proteina spray»: insetti spiaccicati.
Bishop lasciò la superstrada al termine della lunga vallata. Uscita per Driscoll, California, 67.000 abitanti, l’ultimo grande avamposto prima delle montagne e dei boschi.
L’Harley sembrò lamentarsi con il pilota che aveva ridotto l’andatura. Bishop procedette a settanta all’ora su una strada a quattro corsie, interamente occupate da un torrente di auto. Ai lati, una sequenza di stazioni di servizio e centri commerciali color sabbia, poi altri benzinai e motel, ancora motel e fast-food — Taco Bell, Burger King, McDonald’s —, quindi ancora stazioni di servizio, e centri commerciali dai mille negozi, con insegne dalle grandi lettere che ne urlavano i nomi. L’Harley deviò su un’altra strada, fece una svolta e poi un’altra, ma lo scenario non cambiò. Stazioni di servizio, hotel, ristoranti e centri commerciali. Dietro le lenti da aviatore, gli occhi chiari di Bishop cercavano il centro città. Poi capì: quello era il centro, non c’era altro. Driscoll non era altro che una cicatrice di cemento che si irradiava alla base delle montagne. Un punto di sosta per i turisti che stavano per inoltrarsi nella natura selvaggia.