«In ogni caso, qualcuno ha ucciso quei bambini», conclusi io.
«È proprio questo il punto», disse infine. «Quello che rende tutto così difficile: alla fine, uno Shadowman c’è stato, anche se in realtà non esisteva.»
Esitai un attimo a replicare. Ero sempre molto cauto nel parlare quando ero nell’Agenzia, perché non volevo sembrare troppo colto, snob o supponente. Non ero più al college e volevo inserirmi in quell’ambiente. Ma in quel momento, forse per l’atmosfera o la situazione, mi sorpresi a fare della filosofia.
«In effetti, la condizione dell’essere umano non è necessariamente legata alla razionalità», azzardai. «Alcune cose esistono pur non essendo reali.»
Weiss si lasciò sfuggire una sonora risata. «Che cosa diavolo significa questo?» Mi accorsi subito di aver commesso un errore. «Che vuol dire, che se anche mi giro, il tavolo non scompare? È questo che vi insegnano a Berkeley?»
Sentii le guance avvampare. «Cercavo solo di dire…»
«Che cosa dobbiamo fumarci per capire?»
«Intendevo solo che… le cose esistono in parte anche attraverso la nostra percezione… È una sorta di interfaccia.»
«Un’interfaccia? Tu sei un’interfaccia? ‘Pur non essendo reali.’ Ma fammi il piacere.» Rise ancora più sonoramente. «E io sono il re di Romania.»
Quella sera passai una buona mezz’ora a sbattere la testa contro il muro del mio appartamento, per punirmi di essermi comportato come un saccente buffone con Weiss. Ero certo che la storiella del mio intervento pseudofilosofico avrebbe fatto il giro dell’Agenzia fin dal mattino successivo, e che sarebbe stata fonte di grandi risate. Ciò mi feriva, perché volevo a tutti i costi cercare di far parte di quel gruppo.
Allora, ai miei occhi loro erano figure di riferimento, soprattutto Weiss e Bishop. Nella mia giovane mente, erano dei grandi: uomini che quotidianamente toccavano con mano il male, sfioravano la morte e rimanevano retti, e sapevano come funzionava il mondo. Certi giorni arrivavo a parlare come l’uno o l’altro di loro, a camminare o a vestirmi come lui, per mettermi alla prova. In ogni caso, pensavo spesso a loro, a come fossero veramente.
Riuscivo a volte a essere severo nel giudicare Bishop. Era un uomo duro, che metteva veramente soggezione. Mi piaceva sentirmi moralmente superiore alla sua natura violenta e a quel suo genere di coscienza, del tutto personale. Ma sapevo fin troppo bene che in cuor mio lo ammiravo, dannazione, non fosse altro che per il suo successo con le donne… avrei dato un braccio anche solo per un quarto di quel successo. Per non parlare poi del suo coraggio, delle moto, dell’abilità come pilota, della paura che riusciva a incutere negli altri. Intorno a lui aleggiava un’aura di pericolo, di letale virilità, caratteristiche molto attraenti per un giovanotto timido che stava cercando di costruire la sua personalità.
Per quanto riguarda Weiss, essendo lui più vecchio, lo accomunavo più a una figura paterna, a un tutore. Avevo un’istruzione superiore alla sua e forse ero anche più intelligente in senso accademico, teorico, ma non potevo che ammirare la sua incredibile esperienza sul campo. Quello sguardo di compassione, quell’atteggiamento grave e pensoso. Si poteva dire che comprendesse la natura umana fino al midollo. Sapeva che le persone, anche le migliori, tradivano e mentivano. Sapeva che si guardavano fra loro con gelosia e nutrivano sogni inconfessabili. Sapeva che avevano un’acuta consapevolezza del grado di corruzione del vicino, e una totale cecità riguardo al proprio. Ma la cosa più importante è che sapeva accettare tutto questo in ognuno di loro, in tutti come in se stesso. Nulla che fosse umano gli era estraneo, e nulla lo stupiva. Non era cinico e credeva nei valori positivi — l’amore, la giustizia — ma sapeva come vanno le cose al mondo. Così come un fiume scende al mare e non può andare in senso contrario, così l’uomo è destinato a soffrire, ecco tutto. In quel periodo, avrei dato qualsiasi cosa per vedere ciò che Weiss aveva visto, per sapere ciò che Weiss sapeva.
Per questo l’idea di essermi reso ridicolo ai suoi occhi, di avergli dato il pretesto per ridere di me, sparlare di me, mettere in giro la voce che ero un universitario saputello che credeva che gli alberi cadessero senza far rumore… be’, questa idea mi abbatteva realmente il morale.
Il giorno dopo mi resi conto che avevo sottovalutato la generosità di Weiss. Sì, raccontò la storia, ma non subito. Fui preso un po’ in giro dall’ufficio, ma nella versione di Weiss la stupidità delle mie nozioni universitarie trovava riscatto grazie alla sua sorprendente utilità. Questo perché, anche se con i miei sproloqui filosofici non lo avevo aiutato a capirne nulla di più su Shadowman, secondo lui avevo risolto il caso della vergine spagnola.
23
Quella stessa sera, Bishop si stava recando al Clover Leaf.
Era ancora sulla soglia e già l’aveva classificato come uno squallido buco. Lo squallido buco di una squallida città. Uno stretto corridoio cieco che terminava con la porta del gabinetto, una stanza che poteva contenere solo la fila di sgabelli addossati al bancone e un paio di tavolini da quattro persone, linoleum grigio sporco sul pavimento, vecchia pannellatura in legno alle pareti. Il tutto condito da musica country proveniente da un jukebox. Anche con la porta d’ingresso aperta per far entrare l’aria della notte, il tanfo di birra e fumo era insopportabile.
C’erano un paio di montanari al bancone, uno con una giacca dell’aviazione militare, l’altro in tenuta da caccia. Quando Bishop apparve, sollevarono i menti barbuti dai boccali, lo squadrarono e, dopo aver deciso che non li importunava, ritornarono a bere. C’erano poi un altro veterano dell’esercito, chiaramente fuori di testa, e, nel punto più scuro del locale, il gorilla di Hirschorn, quello tutto muscoli che aveva parlato con Bishop all’aeroporto. Quando vide il pilota, non fece alcun gesto, ma si limitò a sorridere dietro il bourbon. Gli brillavano gli occhi.
Quanto a Chris Wannamaker, era seduto a un tavolino in fondo, con un braccio appoggiato allo schienale della sedia e le gambe distese. Indossava i jeans, un cappello da cow-boy bianco e una maglietta tagliata che lasciava vedere il tatuaggio e i muscoli. Con lui c’erano un paio di ragazzoni che ridevano sonoramente. Uno di questi, Matt, era un altro pilota della North Country e quando vide Bishop si accalorò. «Ehi, Kennedy», urlò gesticolando nella sua direzione.
Chris invece si raggelò al solo sentirne il nome. Perse il sorriso e la baldanza e non gli staccò più gli occhi di dosso. Bishop si fermò al banco, ordinò una birra, si accese una sigaretta e poi raggiunse gli altri, sempre con gli occhi di Chris addosso.
Bishop prese una sedia e si unì al tavolino. Era appena stato con Kathleen, poco prima. Il sorriso che rivolse a Chris voleva dire: «Il mio cazzo è ancora bagnato di tua moglie». Bishop voleva farglielo capire in tutti i modi, per alimentare la sua rabbia. E in effetti Chris si arrabbiò, senza sapere neanche perché, e guardando il sorrisetto del rivale bevve una lunga sorsata di birra. Bene, fu il pensiero di Bishop.
«Ehi, Kennedy», ripeté Matt ancora più forte, nelle orecchie dell’altro. Si sbracciava e urlava, chiaramente ubriaco. «Forse tu puoi aiutarci. L’articolo centoventuno del regolamento dice: ‘Cloche e bottiglia fanno famiglia’ o ‘Cloche e bottiglia perdi famiglia’?»
Matt e l’altro ragazzo ridevano come pazzi. Bishop accennò un sorriso.
«Nessun vero pilota dovrebbe maneggiare bottiglia e cloche nello stesso momento», disse il terzo ragazzo.
«Per lo meno non con la stessa mano», replicò Matt.
E risero sempre più forte, spingendosi indietro sulle sedie, battendo le mani sul tavolo. Ma non Chris, che rimase a fissare Bishop, a studiarne il sorriso, l’espressione amichevole, senza capire esattamente che cosa gli si volesse comunicare, senza capire che si trattava di sua moglie, o forse facendo finta di non capire.