Weiss aveva uno strano modo di procedere, basato sull’intuito. Ho spesso pensato a lui come a un artista in questo campo. Aveva l’abilità di riuscire a pensare con la testa degli altri, anche se erano degli sconosciuti, se non li aveva mai incontrati. Riusciva a immaginarsi che cosa avrebbero fatto e, senza che lui sapesse come, gli si presentava alla mente lo scenario di ciò che era accaduto o che doveva accadere.
Anche in quel momento stava per succedere. La morte di un ricco criminale, Cameron Moncrieff, il suicidio del suo giardiniere, Harry Ridder, il possibile suicidio della sua assistente, Julie Wyant, l’incarcerazione del suo amante, Whip Pomeroy, che patteggiava con i federali in cambio di protezione contro il fantomatico Shadowman. Tutto ciò iniziava ad avere un senso nella testa di Weiss; i comportamenti delle singole persone iniziavano a formare un unico quadro.
E insieme alla comprensione arrivava anche la sensazione di urgenza, di paura, di cui era solo vagamente consapevole. In un modo che non sapeva definire, questa sensazione era legata al nome di Julie Wyant. Anche se, presumibilmente, la ragazza era morta, anche se la polizia era sicura della sua dipartita e anche se lui stesso pensava che fosse deceduta, non riusciva a togliersela dalla mente. L’immagine di lei non lo abbandonava, accompagnata da una fantasia in cui lui saliva delle scale di corsa, con i minuti contati, fino a una porta chiusa a chiave dall’interno. L’abbatteva con un calcio e la trovava, giusto in tempo per salvarla, sdraiata sul letto con i bei capelli rosso oro intorno al volto angelico. Lei lo guardava con gratitudine, con quegli occhi eterei, protendeva le braccia…
Insomma, era così che si sentiva, proprio come in quel sogno a occhi aperti: sentiva che doveva fare in fretta, che ogni secondo era importante. Ecco perché non si azzardava a fermare Bishop, perché avrebbe convissuto con la collera e il senso di colpa, per non parlare del mal di stomaco. E anche perché stava dirigendosi a Half Moon Bay.
Era stata dura, ma infine aveva rintracciato l’avvocato di Cameron Moncrieff, Peter Crouch. Si diceva che fosse andato in pensione dopo la morte del suo assistito, ma nessuno sapeva dove e, cosa ancor più sorprendente, nessuno sembrava darsene pena. Il vecchio Crouch non aveva amici, non era mai piaciuto a nessuno. Un individuo grassoccio, dall’aspetto anonimo e dalla voce monotona, con l’espressione viscida e servile, sopportato solo da quegli spacciatori, magnaccia, strozzini e delinquenti di vario calibro che aveva difeso nella sua carriera e che lo frequentavano solo quando ne avevano bisogno. Nessuno era andato a salutarlo quando aveva fatto fagotto e lasciato la città, nessuno aveva versato una lacrima o tirato un sospiro di sollievo. Intorno a lui c’era solo indifferenza.
Ma per Weiss Crouch aveva importanza: era presente quando Moncrieff era morto, insieme a Harry Kidder e a Julie Wyant. Crouch era l’unico dei tre ancora vivo, per quel che si sapeva. Perciò Weiss doveva trovarlo e, essendo Weiss, lo trovò.
La casa era una modesta fattoria ristrutturata, situata ai margini della città, non lontano dalla strada principale. Isolata in fondo a una strada tortuosa, sorgeva su un fazzoletto d’erba confinante con un campo dove un tempo si coltivavano zucche. Era un tradizionale edificio a due piani, con un portico e un dondolo dove sedersi in estate. Il dondolo scricchiolava dolcemente, mosso dalla brezza, mentre Weiss saliva i gradini del portico fino alla porta d’ingresso.
Bussò e rimase in attesa. Aveva cercato di telefonare, ma nessuno aveva risposto. Un poliziotto del posto gli aveva detto che la fattoria era disabitata ma che una persona si occupava del giardino e delle piccole riparazioni all’esterno. Quell’uomo gli aveva detto che era Crouch a pagarlo, tramite bonifico, regolarmente, e che finché riceveva i soldi, lui avrebbe svolto il lavoro.
Non venne nessuno ad aprire e Weiss cercò di girare la maniglia. Come immaginava, la porta era chiusa a chiave. Estrasse un astuccio di pelle dalla tasca interna della giacca, scelse l’utensile adatto e forzò la serratura.
Una volta dentro, si ritrovò in un soggiorno fresco, in penombra. I mobili erano ordinati e semplici: poltrone ricoperte di stoffa a fiori, divanetti, un tappeto di stoffa, un’ottomana accanto al caminetto vuoto.
Le finestre erano socchiuse e lasciavano filtrare una leggera brezza, che sollevò un po’ di polvere dal pavimento facendo pizzicare il naso di Weiss. Si udivano scricchiolii e altri piccoli suoni: forse topi nei muri.
Il vecchio istinto del poliziotto si risvegliò in Weiss, che avanzò nella casa con la massima circospezione.
Al pianterreno trovò una stanza per gli ospiti, una sala da pranzo, un salottino, una cucina con la finestra rivolta a sud, da cui entrava una luce dorata che colpiva il linoleum verde del pavimento. Agli angoli si vedevano i danni provocati dai topi, che avevano anche rosicchiato le gambe del tavolo. Aprì i mobiletti, ma non trovò cibo o altro. Udì un ronzio: si trattava del frigorifero in funzione, segno che le bollette dell’elettricità erano state pagate. Anche il frigo, però, era completamente vuoto.
Non c’era anima viva di sotto e neppure di sopra. In camera da letto le lenzuola erano pulite e in ordine, nello studio i libri erano coperti di polvere, come il computer e la scrivania. Weiss proseguì la sua ispezione con i passi felpati di un fantasma che si aggirava furtivo.
Weiss avrebbe dovuto andarsene, per la verità, se non fosse stato per quello stato d’animo risvegliato dentro di lui. Il vecchio istinto dello sbirro. Gli suggeriva di cercare ancora e così ripassò di nuovo tutte le stanze. Fu così che si accorse della botola. Si trovava nel salottino a piano terra, sotto un tappeto, e scricchiolò quando Weiss ci passò sopra. Il detective scostò il tappeto e tirò l’anello di metallo. I cardini cigolarono.
Una scala scura conduceva a una porta, che si aprì a fatica, lasciando sfuggire un refolo d’aria.
Il corpulento detective fu costretto a piegare la testa per passare. La stanza dove si ritrovò era fresca e asciutta, soprattutto molto asciutta. Scovò un interruttore e, quando le luci si accesero, capì. Le rastrelliere, le bottiglie, il termostato indicavano che si trattava di una cantina.
Ciò che spiegava lo stato di conservazione del corpo.
Dopo tutti quei mesi, l’aria asciutta di quella stanza sigillata lo aveva mummificato. Peter Crouch era uno scheletro con la pelle incartapecorita. Era incatenato, nudo e con gli arti divaricali, a una delle rastrelliere. Le costole avevano trapassato il sottile strato di pelle simile a cuoio ed era possibile distinguere anche le ossa delle mani. Ma il volto era ancora stranamente intatto, riconoscibile: gli occhi senza vita, neri e duri come sempre, la testa a pera, i pochi capelli pettinati in un brutto riporto. Solo le guance, un tempo flaccide e bianchicce, erano ora tirate e scure. Weiss pensò che fosse quella rigidità delle guance ad aver aperto le labbra di Crouch, mettendo in mostra i denti bianchi in una sorta di smorfia amara.
Ma no. Più osservava le condizioni del cadavere, più si rendeva conto che Crouch si era conservato esattamente com’era nel momento in cui era morto: con la bocca aperta per urlare.
PARTE TERZA
WHIP POMEROY
30
Lo scotch aveva un buon sapore e la puttana era bella, ma Weiss si sentiva malinconico, turbato, nervoso.
Sedeva vicino alla finestra che dava sul mare, rivolto verso la stanza, con le spalle girate alla notte. Guardava la ragazza e, per qualche motivo, perfino la sua bellezza lo metteva a disagio.
Aveva i capelli rossi, come aveva chiesto, ma non del colore particolare di quelli di Julie Wyant, anche se Casey aveva fatto del suo meglio per trovargliene, in breve tempo, una dalla chioma che si avvicinasse a quella tonalità. Ma aveva il viso dolce come piaceva a lui, un sorriso gentile, zigomi delicati, il mento appuntito. Weiss sorseggiò il drink e la guardò mentre si svestiva. La osservava con la sua solita espressione greve, senza riuscire a scacciare il nervosismo, il turbamento. La paura.