Mi aveva detto che i giornali avevano creato la figura dello spietato assassino, che Jeff Bloom del Chronicle aveva parlato di un misterioso informatore. Quel personaggio, quel mostro dal nome melodrammatico, sarebbe stato un killer senza scrupoli, temuto dai suoi stessi mandanti, un uomo al quale non si poteva sfuggire, perché avrebbe inseguito la sua preda in capo al mondo, pur di concludere il lavoro. Questa era la versione di Weiss.
Ciò che non mi aveva detto — ma di cui avevo avuto notizia nei corridoi dell’Agenzia — era chi fosse l’informatore segreto di Bloom, il vero creatore del diabolico personaggio: un detective di polizia in contrasto con il suo dipartimento, che fingeva di non voler vedere. Un uomo che, alla fine, non sapeva più bene lui stesso se avesse inventato la figura di Shadowman o se ne avesse tracciato l’immagine traendola dai fatti.
E adesso Harry Eidder era morto, suicida. Peter Crouch era morto, ucciso nella sua cantina. E Julie Wyant era scomparsa.
L’uomo ombra, Shadowman, esisteva, che fosse reale oppure no.
«Ecco, iniziano i boschi», disse Ketchum, con evidente disapprovazione.
La strada piegava verso l’interno, allontanandosi dalla costa. Da lì in poi il paesaggio sarebbe stato sconfinato e selvaggio, completamente disabitato.
«Che posto di merda!» continuò Ketchum.
Weiss osservava la strada. Dopo qualche chilometro, gli alberi che la costeggiavano iniziarono a diradarsi e apparve una barriera di filo spinato. Poco dopo si stagliarono sul cielo le torri del carcere, al cui interno si distingueva l’ombra di uomini armati. Sul terreno al di sotto delle torri si vedevano le gabbie di cemento incastrate una nell’altra. Non c’era segno di vita, nessun movimento. Non un essere vivente.
«È il buco del culo del mondo», grugnì Ketchum, sconsolato. «Mi hai trascinato dritto in culo al mondo.»
37
Superarono una serie di controlli sia al cancello sia all’entrata dell’edificio. Guardie dall’aspetto truce li passarono al setaccio con metal detector così sensibili da rilevare quasi il ferro presente nel sangue. Poi un agente dal volto squadrato, grande come una montagna, li scortò fino alla prima barriera.
L’uomo restò fermo mentre un apparecchio analizzava l’iride del suo occhio destro. Si udì un forte ronzio e la pesante porta scorrevole si aprì. L’agente li fece passare e si ritrasse. Weiss e Ketchum si ritrovarono soli nel corridoio di uno dei blocchi, mentre la porta si richiudeva alle loro spalle, intrappolandoli.
Percorsero lo squallido passaggio in silenzio. Anche se abituato alla desolazione di quei posti, Weiss si sentiva sempre più oppresso a ogni passo, come se stesse abbandonando la luce e l’aria per scendere in una soffocante oscurità.
Anche Ketchum provava una simile sensazione e scuoteva la testa lamentandosi: «Mio Dio, credo che non ci sia niente di più sconfortante di questo posto».
Le telecamere li seguivano passo dopo passo, ma i due non incontrarono altre guardie finché non raggiunsero la porta di ferro del parlatorio. Qui, in una cabina dai vetri corazzati, c’era una guardia che li salutò con un cenno, senza sorridere. Poi si udì un altro assordante ronzio, e Weiss poté aprire la porta.
La stanza era piccola, con i muri di cemento e una parete, quella di fronte a loro, trasparente e, ovviamente, corazzata. Sui lati vi erano alcune sedie di plastica. Weiss e Ketchum ne presero due e si sedettero.
Rimasero a guardare, in silenzio e immobili, la sedia di metallo inchiodata al pavimento al di là del vetro. Entrarono due guàrdie che trascinavano un uomo ammanettato. Lo fecero sedere e lo incatenarono ai ganci fissati sul pavimento; poi si ritirarono. La porta si chiuse. Weiss e Ketchum si sedettero di fronte all’uomo incatenato, Lenny «Whip» Pomeroy.
Non aveva l’aspetto di un galeotto comune. Era magro, con i lineamenti delicati e dita lunghe, delicate e nervose. Gli occhi avevano un’espressione di scusa e le labbra sottili continuavano a muoversi. Sembrava impegnato in un monologo con se stesso che si manifestava come un impercettibile sussurro.
Erano due mesi che mercanteggiava con i federali, rivelando identità nascoste in cambio di quella protezione. Praticamente era da allora che non vedeva il sole e il suo pallore era cadaverico.
«Dunque, Pomeroy», iniziò Ketchum. «Sono l’ispettore Ketchum del dipartimento di polizia di San Francisco. Questo è il detective Weiss, della Weiss Investigations, un’agenzia privata. Deve farti un paio di domande.»
Gli occhi del poveretto si mossero da uno all’altro fino a scegliere Weiss, senza però fissarlo, piuttosto ronzandogli intorno come un insetto irrequieto. Scosse appena la testa. «No, no. Avevamo detto tre mesi.» La voce era come un nervoso singulto che il microfono rendeva metallico e spezzato. Le catene cigolarono, mentre muoveva le mani. «Non vi dirò niente per almeno tre mesi.»
«Non sono qui per questo», disse Weiss, in tono pacato.
«Tre mesi, questo era l’accordo.» Non riusciva a tener ferme le mani.
«Non voglio nessuna informazione sui tuoi clienti.»
«Avevamo un accordo, mi avevate detto…»
Weiss tagliò corto: «Stiamo cercando Julie Wyant».
L’effetto fu immediato e drammatico. Weiss non avrebbe creduto che il giovanotto potesse ulteriormente impallidire, ma anche l’ultimo, impercettibile colore vitale scomparve dalle sue guance. Sulla sedia in quel momento c’era un essere trasparente, tranne gli occhi, enormi e terrorizzati.
Weiss non riusciva a capire se stava scuotendo la testa o se era in preda a una crisi isterica. Parlò comunque, sempre con voce calma. «Non lavoro per Shadowman», disse. «Sto cercando di fermarlo.»
Gli occhi non smettevano di roteare. «Sì… be’… Per forza dite così, no? Io… Come faccio a saperlo? Capite quel che dico? Come faccio…?» La voce venne meno. Le labbra continuarono a muoversi ma non uscì più un suono.
Weiss ignorò la domanda. «Io la vedo così», continuò, ancora più calmo. «È accaduto qualcosa mentre Cameron Moncrieff stava morendo nel suo letto. Forse ha detto o fatto qualcosa che riguardava Shadowman e per cui il killer si è sentito minacciato. Julie Wyant era presente, così come il legale di Moncrieff, Peter Crouch; anche Harry Eidder, il giardiniere, ha sentito, forse dalla finestra, forse perché passava di lì o stava origliando.»
«Si occupava delle rose.» La frase si distinse nel mormorio senza senso dell’uomo, come un improvviso bagliore nella notte buia. «Le prime rose Heart of Gold della stagione, fiorite proprio sotto la finestra della camera da letto. Ha sentito per caso, solo per caso.»
Weiss annuì, incoraggiandolo con uno sguardo profondo e comprensivo. Era piegato in avanti, con le mani sulle ginocchia. «Che cosa vi ha detto, Pomeroy? Che cosa è accaduto quel giorno? Devo saperlo, per Julie.»
Weiss e Pomeroy si guardarono attraverso la parete trasparente. Più tardi, Ketchum avrebbe detto che gli era sembrato di assistere a un esorcismo, come se il nome della ragazza, trasformato in una formula rituale, avesse obbligato il giovanotto a liberarsi dell’ossessione.
Le labbra su quel volto cadaverico sussurravano sempre più forte. «Non potete capire… Non potete, non la conoscete.»
«Spiegami, allora. Che cosa è successo?» continuò Weiss. «Moncrieff le ha detto qualcosa? Qualcosa che Shadowman non voleva che sapesse? O le ha dato qualcosa che non doveva avere…»
«No!» sibilò Pomeroy. «No, no, no. Non capite. Pensate che si tratti… si tratti di cose… di cose. Ma voi non la conoscete, non conoscete Julie.» Scandì le sillabe del nome con dolcezza, con una specie di esaltazione.
A Weiss non piacque quel tono, lo faceva sentire insicuro, come se improvvisamente la sua ricostruzione avesse meno valore, o lui stesso non volesse più sapere la verità.