45
Le foreste che si stendevano tremila piedi più sotto erano di un verde scuro alla luce del tramonto. Il Cessna s’inclinò mentre Bishop lo portava verso nord, attraversando il crepuscolo.
La voce di Hirschorn si fece sentire nelle cuffie. «C’è un bel mucchio di niente là sotto, vero?»
Bishop annuì mentre riportava l’aereo in assetto orizzontale, come Hirschorn gli aveva raccomandato di fare.
«Nessun modo per entrare, nessuno per uscire», continuò Hirschorn. «Niente strade, né telefoni.»
«Neanche piste d’atterraggio, per quel che posso vedere», replicò Bishop.
Sentì l’altro fare una risatina che suonò fredda e meccanica in cuffia. «Nervoso?»
Bishop accennò un sorriso.
Il sole era sceso dietro le montagne, a ovest, ma il cielo era ancora di un azzurro intenso. Bishop si sfilò gli occhiali e li mise in tasca. Fu allora, con l’ultima luce diurna, che intravide qualcosa in basso, un’impercettibile linea tortuosa fra gli alberi, troppo marrone per essere un fiume, troppo stretta per essere una strada.
Hirschorn se ne accorse. «Sì, è quella», disse. «È una strada mineraria, ai tempi della corsa all’oro la usavano per trasportare la dinamite dal deposito alla miniera. Adesso non serve più a niente, una via della dinamite a cinquanta chilometri di montagne impervie da qualsiasi abitazione. Ma dall’aria… seguila, e inizia a scendere.»
Bishop gli lanciò uno sguardo interrogativo che significava: inizia a scendere dove? Ma Hirschorn si limitò a mostrare i denti fra i baffi argentei. Bisognava riconoscere che quel vecchio aveva un gran sangue freddo.
Bishop iniziò la manovra e sentì l’aereo abbassarsi dolcemente. Inclinò l’apparecchio in virata per seguire la via della dinamite durante la discesa.
«Al massimo atterriamo sugli alberi; sei capace, no?» stava dicendo Hirschorn, mentre rideva.
E per lunghi istanti parve proprio che così avrebbero fatto. Il Cessna scese sempre più, fino a sfiorare le cime delle querce e dei pini, ma l’unica interruzione nel verde sconfinato era la linea marrone, poco più di un sentiero, sulla destra dell’aeroplano. E anche quella divenne difficile da seguire, man mano che calava la sera. Le foglie degli alberi vennero inghiottite da ombre incolori e l’azzurro del cielo si fece violetto. La via della dinamite era appena un filo grigio.
«Là», disse Hirschorn.
Dove? pensò Bishop, strizzando gli occhi per cercare di vedere. Ma niente, non c’era niente. Poi, sì, in un istante, ecco la pista d’atterraggio a ore una… ma era già scomparsa, l’avevano superata.
Bishop sporse le labbra in una smorfia di disappunto. Hirschorn rise ancora. «Non c’è molto spazio per atterrare.»
Questo era poco ma sicuro. Poco più di seicento metri di terra battuta, circondata da pini e querce che rischiavano di colpire le ali. Sarebbe stato difficile beccarla con un elicottero, figuriamoci con un aeroplano.
«Pensi di farcela?» domandò Hirschorn.
Bishop non rispose neanche. Virò per tornare indietro e rallentò mentre si avvicinava. La ripercorse tutta dall’alto, misurandola mentalmente. Non era facile. E anche la pista stava per sparire nel buio.
«Chris ha fatto scoppiare uno pneumatico la prima volta che ci ha provato. Siamo quasi andati a sbattere contro un albero.» Hirschorn parlava in tono allegro. «Ora capisci perché avevo bisogno di un pilota molto esperto.»
Bishop impegnò l’aereo nell’avvicinamento finale. Abbassò il carrello e credette di sentire le ruote che urtavano i rami. I fasci delle luci di atterraggio si perdevano nella nebbiolina che saliva dalla foresta, e davanti a sé il pilota non vedeva quasi più niente; distingueva a malapena la pista nel crepuscolo. I flap, la velocità che rallentava, il ronzio uniforme, l’ombra della pista sempre più vicina erano parte della sua coscienza. Scelse il punto esatto, un metro o due oltre la linea degli alberi. Passata l’ultima quercia, alzò il muso dell’aereo, e il Cessna si abbassò bruscamente, come un mattone, quasi in verticale. Tutto l’abitacolo fu scosso dalla vibrazione quando le ruote toccarono il terreno. Bishop intanto combatteva per tenere su il muso, per impedire il più a lungo possibile alla ruota anteriore di toccare terra. Quando poi, diminuita la velocità, non ci fu più pericolo di sbandare o ribaltarsi, portò giù il muso e abbassò con sicurezza il piede sui freni.
Tra gli alberi era quasi completamente buio. Mentre l’aereo rollava, Bishop cercò di guardare oltre il parabrezza, per vedere dove finiva la pista. Improvvisamente si trovò davanti un muro di tronchi, ma ormai il Cessna era sotto controllo. La notte parve rallentare attorno a loro, fino a fermarsi. L’aereo stazionava immobile sulla pista, i motori al minimo. Erano atterrati.
Bishop si concesse un sospiro di sollievo e guardò Hirschorn con la coda dell’occhio. Scorse il suo profilo.
«Ti sei divertito?» disse il vecchio, ma Bishop non rispose. Hirschorn rise, una risata gioviale. Sporse il braccio sopra il pilota e prese le chiavi dell’apparecchio. «Vedrai il prossimo volo!» aggiunse.
46
Quando scese dall’aereo, Bishop notò delle luci che si avvicinavano dalla foresta e colse un rumore di passi sulle foglie cadute. Dopo un istante apparvero due uomini, in tuta mimetica e cappellino. Entrambi portavano una mitraglietta in spalla.
Bishop pensò che era un discreto armamentario per quel posto sperduto nel bel mezzo del niente. Anche lui, che non era abituato ad avere paura, si sentì improvvisamente solo e abbandonato, incredibilmente lontano da qualsiasi possibilità di fuga o di aiuto.
«Andiamo», ordinò Hirschorn.
Bishop prese la sua borsa dal sedile posteriore dell’aereo e, a un cenno del capo, seguì uno dei due uomini che si avviava verso gli alberi. L’altro si mise in coda al gruppo.
Non c’era un sentiero, ma solo radici intricate, foglie, alberi e una nebbiolina inquietante. A un certo punto apparvero delle piccole luci confuse, che non aiutavano però a orientarsi. Non si poteva far altro che seguire l’uomo, senza perderlo di vista.
Nella foresta l’aria era più fresca che in città, ma molto più umida. La maglietta di Bishop si intrise di sudore in pochi minuti e il viso si fece appiccicoso. Arrivarono le zanzare, a stormi ben visibili nel raggio delle torce. Bishop udì l’odioso ronzio che annunciava l’attacco e le maledisse con tutte le sue forze. Cominciò a schiaffeggiarsi il collo e le guance, sporcandosi del proprio sangue mentre si schiacciava gli insetti addosso.
Il tragitto però non fu lungo, circa dieci minuti. Il primo segno che la meta era vicina fu il rumore di un generatore, poi i rami contorti degli alberi e dei rampicanti cominciarono a stagliarsi contro un riverbero bianco e spettrale, una luce lontana filtrata dalla foschia.
A dispetto di quelle avvisaglie, l’arrivo al campo base costituiva una sorpresa. Non c’era nessuna radura, solo un paio di prefabbricati incuneati fra gli alberi. Uno era una baracca a due piani, composta da due container di metallo messi uno sull’altro, con una finestra per ogni parete di entrambi i blocchi e una scala appoggiata a un lato corto. Dalle finestre oscurate sfuggiva solo quella pallida luce spettrale che si diffondeva tra i vapori del bosco, trasportata dal loro lento moto a spirale.
L’altra costruzione, più grande, era una specie di capannone completamente buio.
Mentre si avvicinava senza rompere la fila, Bishop guardò istintivamente in alto e vide una stella in un rettangolino di cielo. Tutto il resto era coperto dalle chiome degli alberi. Sopra il capannone, poi, c’era una specie di rete, simile a quella delle zanzariere, che serviva a mimetizzare ulteriormente il posto, se mai ce ne fosse stato bisogno. Si poteva sorvolarlo a duecento piedi per centinaia di volte senza mai vederlo, pensò. Soprattutto al buio. Non aveva dubbi: se non fosse riuscito a tirarsi fuori di lì da solo, nessuno lo avrebbe mai trovato.