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Con questo amaro sentimento di autocommiserazione nel cuore, mi girai per dare quello che pensavo sarebbe stato un ultimo saluto all’Agenzia, al settimo piano della torre di cemento con il tetto rosso. Mi ricordo ancora che cosa vidi, anzi, credo che non lo dimenticherò mai. Era Weiss, la sua massiccia figura inquadrata nel grande arco della finestra, che con le mani in tasca contemplava la città, il traffico, i pedoni sotto di lui, le persone, la fretta con cui si allontanavano sparendo nella sera e nel mistero della loro vita. Il computer doveva essere acceso, perché nell’oscurità della stanza si vedeva una debole luce bianca che delineava la sua sagoma. Nel mio stato confusionale, mi immaginai di poter distinguere i suoi lineamenti, l’espressione compassionevole del suo viso segnato. Credetti di scorgere il bagliore dei suoi occhi e lo sguardo intenso che cercava di scrutare oltre la nebbia.

Mi fermai a guardarlo, a fissare la sua immobilità. Sebbene così deluso di me stesso, provai un moto di vera ammirazione per lui e sentii riaccendersi in me il barlume di una nuova ispirazione, un ricordo vago di quell’idea di uomo che avevo pensato di poter incarnare.

Rimasi a fissarlo per un lungo istante, poi mi girai e andai via, nel buio.

Con questo, finisce la mia apparizione in quella storia. Ma mentre caracollavo fino a casa per poi vomitare l’anima e abbattermi sul pavimento del bagno, quel forte senso di ammirazione rimase in me e mi scaldò il cuore. Non potevo saperlo, allora, ma nel voltarmi indietro avevo intuitivamente capito che Weiss, proprio in quel luogo e in quel momento, mentre stava perfettamente immobile alla finestra, era in uno dei suoi momenti di massima azione e di massimo, inarrestabile impegno. Stava dando il meglio di sé proprio in quel luogo e in quel momento, perfettamente immobile eppure, come venni a sapere in seguito, scatenato sulle tracce di Shadowman.

51

Arrivarono da Kathleen non molto più tardi, verso le nove di sera. Era nella stanza sul retro della casa, sdraiata sul divano, a guardare la televisione. In verità la fissava e basta, ed erano due ore che non si muoveva di lì, sgranocchiando patatine e bevendo birra dalla bottiglia. Accendeva una sigaretta dopo l’altra per poi spegnerle dopo averle fumate a metà, e non avrebbe saputo dire qual era il programma in onda in quel momento.

La verità era che, nella sua testa, c’era troppa spazzatura e nel suo cuore un’opprimente oscurità. Kennedy e il suo inganno, Chris e i tizi che lo cercavano, Hirschorn. Era disgustata da tutti. Come era possibile che la sua vita fosse una schifezza del genere? Era disgustata da tutta quella dannata storia.

Il disgusto, però, non aveva ancora lasciato il posto alla paura. Kennedy l’aveva avvisata, ma lei non gli credeva più. I due scagnozzi di Hirschorn se n’erano andati, cercavano Chris, non lei. Pensò che se lo sarebbero lavorato per un po’, perché beveva troppo e aveva la lingua lunga. Ben gli stava. Era Kennedy quello che doveva avere paura. Quando Hirschorn avrebbe scoperto chi era in realtà… be’, peggio per lui. Che andasse all’inferno, con tutti gli altri. A lei non importava.

Continuò a fissare il televisore, a bere birra e ad accendere sigarette per poi spegnerle quasi subito. Adesso c’era una specie di gioco, uno di quelli in cui la gente, per denaro, fa cose strane. C’era una donna che veniva ricoperta di serpenti e, se resisteva per un certo periodo, avrebbe vinto. Be’, che c’era di difficile? pensò Kathleen. Quella troia avrebbe messo la testa in un secchio di merda, se le avessero dato denaro sufficiente. Una puttana idiota che avrebbe fatto qualsiasi cosa per denaro.

Pensò di cambiare canale, ma la pigrizia prevalse e continuò a guardare il gioco a premi. Dal punto in cui era, sul retro, non vide l’auto nera accostare al marciapiede davanti a casa. Non sentì aprire la porta d’ingresso e fino all’ultimo istante non udì neanche i passi. Solo allora si voltò, e vide suo marito sulla porta.

Impressionata, si raddrizzò sul divano. Gesù, com’era conciato. Era proprio messo male. La faccia plumbea, gli occhi spiritati e sui pantaloni una macchia scura che stava cominciando ad asciugare… e puzzava di urina.

Spense la sigaretta che si era appena accesa, prese il telecomando e premette il pulsante per togliere l’audio.

«Ehi, Chris», disse, con tono esitante.

Le finestre erano aperte per lasciar uscire il fumo e far entrare l’aria della sera. Con il televisore senza audio — adesso sullo schermo c’era un grassone flaccido con un gran sorriso — si sentivano i rumori del giardino e del vicinato. I grilli, il chihuahua simile a un topo degli O’Connor che abbaiava, il rumore del coperchio di un cassonetto di plastica presso la casa dei Paynter.

Chris non si mosse per qualche istante; sembrava malfermo sulle gambe e il sorriso vacuo sul suo volto era simile a quello di chi ha perso la ragione.

«Tutto bene?» chiese Kathleen.

«Sì», rispose l’uomo, ma anche il tono della voce era vacuo. «Sto bene, ma dobbiamo andare, Kathleen.»

«Andare, dove diavolo dobbiamo andare?» Guardò l’orologio. «Sono le nove di sera…»

«Lo so», disse lui, senza cambiare tono. «Ma dobbiamo andare comunque. È signor Hirschorn dice che qui non siamo al sicuro. Ha mandato i suoi scagnozzi. Ci porteranno loro in un posto sicuro.»

«Chris… di che cosa stai parlando? Non riesco a…»

Fu allora che comprese che l’avrebbero uccisa.

I personaggi nel televisore continuavano il loro spettacolo e i grilli non smettevano di cantare, e quel cazzo di chihuahua continuava ad abbaiare. Forse udì uno scalpiccio sull’erba, o magari fu semplicemente il tono di Chris a farglielo intuire, ma Kathleen si rese improvvisamente conto che i due uomini della BMW nera erano tornati. Capì che erano venuti per lei, per portarla nel bosco, da qualche parte. Quando l’avessero trovata, i suoi capelli sarebbero stati intrisi di sangue intorno al foro del proiettile, e il volto premuto a terra, con foglie e rametti che aderivano alla pelle.

E lì c’era Chris, era questa la cosa più schifosa. Era venuto per consegnarla a loro, il suo caro maritino, era venuto a blandirla per farla uscire senza resistenza, per non far sapere ai vicini che cosa stava succedendo, per non far casino. Aveva pensato che niente potesse più ferirla, ma quel comportamento di Chris la feriva eccome. La faceva star male da morire. Era sua moglie, ma a lui non importava un accidente. L’avrebbe consegnata a loro per soldi, come nel gioco alla televisione. Si fa qualsiasi cosa per denaro, anche alla propria moglie.

Si alzò, lentamente, anche se tutto dentro di lei sembrava sprofondare.

«Mio Dio, Chris», disse.

«Dobbiamo andare», continuò Chris in tono assente. «Il signor Hirschorn ha mandato i suoi uomini a prenderci.»

Le vennero le lacrime agli occhi. «Chris, che cosa stai facendo?»

«Forza, Kathleen», disse. «Va tutto bene, nessuno ti farà del male. Dobbiamo andare.»

Si gettò contro di lui, pianse e urlò di rabbia e disperazione, cercò di colpirlo con entrambi i pugni. Quando lui le prese i polsi, cercò di graffiarlo, di lacerargli le guance. Singhiozzava e le lacrime le bruciavano gli occhi, come acido. La disperazione e la rabbia le rendevano infuocate.

Chris la prese tra le braccia robuste e la tenne stretta, in modo che non potesse muoversi. Lei cercò di divincolarsi, mentre sentiva il puzzo del suo sudore rancido, dell’urina, di qualcos’altro che non sapeva definire, ma era orribile. Lottò e, alla fine, si arrese. Appoggiò il volto sul suo petto e pianse, mentre lui cercava di consolarla, le baciava i capelli.