Tutti e dodici erano assassini, naturalmente. Per arrivare a North Wilderness, l’assassinio era il primo passo da fare. Weiss cercò i particolari dei loro crimini. Vendette tra bande, sparatorie in luoghi pubblici, uno di Los Angeles che aveva fatto a pezzi la fidanzata… Analizzò tutti i casi, non solo attraverso le pratiche di polizia, ma anche leggendo gli articoli di giornale. In verità sarebbe potuto arrivare alla risposta molto più in fretta, ma non si fidava completamente del proprio istinto, delle illuminazioni. Era molto scrupoloso in quel senso. Procedeva adagio, come una persona che si fa strada in una stanza sconosciuta di notte, a tentoni. Voleva che ogni elemento avesse un senso logico.
Le grosse dita battevano sulla tastiera e gli occhi scrutavano lo schermo, che spandeva la sua luce bianca sui lineamenti pesanti di Weiss. Eliminava i nomi e i fatti con misurata lentezza. Per esempio, prima di ritornare in cella Pomeroy aveva vagamente descritto Shadowman, così Weiss sapeva che l’individuo che cercava era bianco; però era riluttante a escludere latinoamericani, perché temeva che l’assassino usasse qualche travestimento. Cancellò invece i neri. Sapeva anche che Shadowman aveva fretta di entrare in prigione, perciò eliminò quelli che avevano permesso al loro caso di arrivare al processo, quelli che erano stati arrestati dopo lunghe indagini e quelli arrestati dopo più di due o tre giorni dal crimine.
Di certo era un procedimento scientifico, ma era anche una perdita di tempo. Se solo avesse ascoltato il suo istinto, invece della logica, avrebbe saputo chi era il suo uomo. Perché Weiss aveva quel talento particolare per seguire il pensiero del killer e addirittura prevederne le mosse. Sapeva esattamente qual era il tipo di delitto più adatto a lui. L’assassino, secondo lui, doveva aver scelto la vittima a caso. Perché no? Avrebbe ottenuto lo stesso risultato uccidendo chiunque. Ma doveva esserci qualcosa in più: doveva aver lasciato involontariamente una firma, il marchio della sua personalità omicida, come un’impronta lasciata per distrazione. Doveva averci messo un po’ di sadismo, un’efficienza esasperata, una maniacale ricerca di perfezione, ma anche, senza volere, una perversa ironia. La vittima doveva essere giovane, una donna probabilmente, bella, intelligente, sicura di sé. Una giovane mamma o, meglio ancora, una giovane fidanzata. Una persona che fosse amata, con un futuro davanti, che sarebbe stata rimpianta. Doveva essere una donna con un lavoro di prestigio, entro certi limiti, perché il killer non voleva certo una persona troppo intelligente o furba. Doveva aver scelto una creatura dolce e felice, all’alba della vita, così nell’ucciderla avrebbe provato un’insana soddisfazione per il suo grottesco incontro con la morte.
Weiss sapeva queste cose, ma non ne era neppure del tutto cosciente, perché non avevano la solidità della logica. Erano impressioni troppo simili alla superstizione. Impiegava dunque preziosi minuti ad analizzare i delitti commessi dagli assassini della lista. Questo lavoro, però, fin dall’inizio, continuava a riportarlo a un unico caso.
Richiamò sullo schermo un articolo sulla morte di Penny Morgan. La ragazza, una ventitreenne di San Francisco, era stata uccisa durante una rapina nel suo appartamento. Si era appena fidanzata, asseriva l’articolo. Era descritta come simpatica, allegra, disponibile. Le avevano sparato in faccia, a distanza ravvicinata. Subito dopo aver udito i colpi di pistola i vicini avevano chiamato la polizia, che era arrivata giusto in tempo per vedere l’assassino che cercava di scappare con un magro bottino di denaro e gioielli. Aveva confessato un’ora dopo l’arresto.
Weiss si appoggiò allo schienale, allontanandosi dalla luce dello schermo. Il suo viso svanì nel buio della stanza mentre leggeva ancora l’articolo da cima a fondo. Sarebbe andato avanti a controllare gli altri casi fino a essere del tutto sicuro, ma già ora la sua voce si levò nel buio, in un sussurro.
«Ben Fry», fu tutto quel che disse.
57
Nel bosco Kathleen inciampò in un ramo. Goldmunsen, il più grosso dei gorilla, camminava subito dietro di lei, con la pistola. Flake si spostò al fianco della donna per illuminare meglio con la torcia il loro cammino.
Kathleen non guardava i suoi assassini. Riprese semplicemente il cammino con lo sguardo basso, rassegnata. Non le importava più di niente e piangeva solo perché si era resa conto di quanto squallida fosse stata la sua vita, e sempre per colpa di uomini. Gli uomini erano dei vigliacchi, degli esseri meschini. Rivedeva Chris che strisciava verso Hirschorn, Frank Kennedy con lo sguardo sprezzante. E lei non aveva mai desiderato altro che l’amore di uno di quei bastardi. Che cos’era, un delitto?
Si passò il polso sotto il naso colante e continuò ad avanzare, a fatica, cercando di districare i piedi dal sottobosco. Il terreno, irregolare, era in discesa. Stavano camminando da un po’ e la palude non doveva essere lontana. Kathleen ne percepiva l’odore, ne sentiva i rumori: un vero e proprio frastuono di rane e insetti. Procedeva passo dopo passo, rallentando ogni tanto per asciugarsi il viso con le mani. Goldmunsen la spinse in avanti con la pistola e la fece inciampare, forse su una radice. Dovette fermarsi un attimo per ritrovare l’equilibrio, appoggiandosi col braccio a un tronco.
«Non ti fermare», blaterò Goldmunsen.
«Vaffanculo», rispose lei.
A quelle parole, Flake ridacchiò sadicamente.
«Vaffanculo anche tu, bastardo di uno psicopatico», continuò Kathleen.
«Ehi, puttana, stai attenta a quello che dici.» Flake cercò di colpirla in faccia con un manrovescio, ma lei lo bloccò con entrambe le braccia, spostandosi di lato. «Ehi», ripeté l’uomo, mentre quasi perdeva l’equilibrio.
«Tieni le tue sporche mani lontano da me», urlò Kathleen, e che andassero tutti all’inferno. Potevano ucciderla anche subito, ma non gliene importava. Nessuno, neanche uno di questi figli di puttana, le avrebbe più messo le mani addosso. «Stammi lontano!»
Precedendoli entrambi si affrettò giù per la discesa, piangendo.
Flake rimase fermo per qualche istante, stupito, imbambolato.
«Forza, ci siamo quasi», disse Goldmunsen. «E questa volta speriamo di poter fare quello per cui siamo venuti, senza complicazioni. Maledette zanzare, mi stanno uccidendo.»
«Hai visto?» stava dicendo Flake. «Hai visto che cosa ha fatto quella puttana?»
La inseguì, e quando la raggiunse le si parò davanti, puntandole la torcia negli occhi, per avere la sua attenzione. Kathleen la spostò come se fosse un fastidioso insetto, senza guardare l’uomo.
«Pensi che non userò il coltello su di te?» disse.
«Vai a farti fottere», rispose Kathleen.
Flake non riusciva a credere alle sue orecchie. Rimase a bocca aperta.
«Forza, andiamo», disse Goldmunsen superandolo.
«Ma…»
«Forza!»
Che cosa poteva fare Flake? Si rassegnò a seguirli, illuminando la strada.
Kathleen sentì che il terreno sotto i piedi diventava più umido, spugnoso. Le zanzare erano sempre di più e le rane gracidavano vicine. Poi ci fu una scintilla nel buio, un barbaglio lucido: il raggio della torcia aveva sfiorato l’acqua.
Kathleen ebbe un moto di paura. Erano arrivati, ecco la palude. Deglutì, sperando che tutto finisse presto.
Un altro passo e il piede fu a mollo. L’acqua fredda entrò nelle sue scarpe da tennis e le bagnò le calze. Si fermò, non c’era nessun altro posto in cui andare. Era la fine.