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Kathleen fece un altro passo avanti arrivandogli davvero vicino, tanto che Bishop vide chiaramente il suo volto nell’oscurità, percepì la rabbia e l’offesa nei suoi occhi. Era tanto vicina che avrebbe potuto prenderle la pistola, se fosse stato veloce, se non fosse stato troppo intontito e fosse riuscito a battere in velocità il dito di lei, già stretto così nervosamente attorno al grilletto.

In quel momento, Bishop era alquanto sicuro di non essere all’altezza.

Kathleen scosse la testa, tristemente. «Scommetto che non ti chiami neanche Frank», disse. «Merda, mi stavo innamorando di uno di cui non conosco neanche il nome.»

Un’altra fitta di dolore gli trapassò il cranio. Si massaggiò la tempia sospirando. Odiava veramente quella parte della storia. «Bishop», disse. «Jim Bishop.»

Il rumore dell’elicottero cambiò, divenne più intenso e più forte. L’Apache si alzava in volo.

«E non mi hai amato per niente, vero?» chiese Kathleen.

Bishop scosse la testa, sobbalzando per il dolore causato da quel gesto. «No», rispose.

L’elicottero tuonava sempre più forte.

«Che tu sia maledetto», disse Kathleen.

Emise un rauco gemito di rabbia. Lo afferrò per i capelli e attirò il volto di lui vicino al suo, premendo la pistola contro la pancia di Bishop e le labbra sulle sue. Lo baciò. La testa di Bishop pulsò di dolore, con delle fitte acute dove lei gli tirava i capelli. Sentì la sua Lingua in bocca, e la canna della Glock affondargli nella carne. Si chiese se Kathleen l’avrebbe ucciso, se sarebbe morto così, baciandola. Poi alzò una mano a toccarle i capelli durante il bacio. Intorno a loro, intorno alla palude illuminata dalle stelle, sopra i cadaveri dei due uomini che giacevano a terra nel riverbero della torcia, l’aria tremò al fragore dell’Apache che si alzava in volo.

Poi, con un brusco movimento della mano, Kathleen allontanò Bishop, lasciando andare i capelli come se li stesse buttando via. La pistola però era ancora puntata su di lui. Lo guardò negli occhi.

«Perché sei tornato indietro?» chiese. Dovette alzare la voce, perché il rumore dell’elicottero era sempre più forte. «Perché sei venuto a salvarmi?»

Bishop posò lo sguardo su di lei. L’elicottero percuoteva l’aria e il dolore batteva forte in testa. Cercò di sorriderle con un angolo della bocca. «Mi venga un colpo se lo so.»

Persino Kathleen rimase sorpresa della risata che le uscì dalla gola. Che cosa si doveva fare con uomini come quello? Che cos’era a renderli così maledettamente attraenti? Scosse la testa. «Sei un autentico bastardo, lo sai.» Abbassò la pistola e rise di nuovo. «Te lo dico in tutta sincerità, Bishop. Ce ne sono tanti che ci provano, ma tu lo sei veramente!»

Un istante dopo alzarono lo sguardo: l’elicottero stava passando sopra di loro. Stazionò per un momento nell’aria color indaco sopra la palude, una sagoma scura alla luce delle stelle e della luna bassa sull’orizzonte. Con le pale rotanti e i missili Hellfire appesi sotto le tozze ali, sembrava davvero un malefico insetto emerso dalle canne e dalle acque torbide.

Era a circa sessanta metri di altezza, non di più, e il suo ritmico battito copriva ogni altro rumore. I due sentirono lo spostamento d’aria sul viso.

«Pensi che sia Chris?» domandò Kathleen gridando per farsi udire, lo sguardo rivolto all’apparecchio.

«Penso di sì», gridò Bishop di rimando. «Non può che essere lui.»

«Pensi che lo rivedrò?»

«Non credo proprio. Comunque vada, è un uomo morto.»

«Credo che di questa non avrò più bisogno, allora», disse Kathleen, gettando la pistola al suolo.

Restarono così, fianco a fianco, osservando il mostro nel cielo. Al suo interno, sotto il sedile di guida, il computer di Bishop stava sempre cercando il segnale per spedire il messaggio.

E salire un po’ di altitudine, pensò Bishop, era proprio quello che gli serviva.

Proprio in quel momento, l’Apache si alzò verso il cielo e sparì nella notte.

61

L’uomo chiamato Ben Fry aprì improvvisamente gli occhi.

Era sulla branda della cella, sotto la coperta, completamente vestito. Si era addormentato per un minuto, forse cinque, non lo sapeva. Aveva avuto un incubo: era in casa di sua madre, aveva aperto un armadio e l’aveva trovato pieno di corpi macellati. Si era svegliato con il cuore in gola, con il fiato corto. Si era ripreso subito, aveva capito dov’era e si era tranquillizzato. Era giunto infine il momento.

Gli sembrava di ritornare se stesso, infine. La meticolosa, fredda precisione dei suoi pensieri sembrò riprendere il suo corso senza problemi. Immagini come quella dell’incubo — e molte altre molto più spaventose di tutta la sua vita — sembravano essere state ricacciate nel profondo. Poteva risalire nella torre, al sicuro, per seguire il suo piano.

La prima cosa era recuperare la capsula.

L’uomo chiamato Ben Fry guardò l’orologio di plastica che teneva agganciato alla branda. L’aveva usato per cronometrare le immagini sui monitor della cabina di controllo. Quarantotto celle, ognuna mostrata per dieci secondi. Un ciclo di otto minuti. In uno dei suoi passaggi verso il parlatorio, aveva visto la sua cella e aveva iniziato a contare. Aspettò il momento in cui era il turno della sua cella di apparire sul monitor, poi contò i dieci secondi e qualcuno in più, per sicurezza, e si girò verso la parete.

La coperta copriva le sue mani infilate dentro la cintura dei pantaloni. Le dita trovarono il punto delicato della cicatrice. Trattenne il fiato, concentrandosi sul muro bianco davanti a lui. Poi si pizzicò la carne fra pollice e indice e iniziò a premere.

Schiacciò con forza e vide accendersi nei suoi occhi dei lampi bianchi, un’esplosione di dolore bianco, e scintille che ricadevano come in un fuoco d’artificio. L’uomo chiamato Ben Fry continuò a guardare la parete, con le mascelle serrate, gli occhi strabuzzati. La sacca di pus che si era formata intorno alla capsula salì verso l’esterno, e la sua gamba avvertì con dolore il bordo tagliente dell’oggetto che si spostava. Le dita premettero più forte e la capsula salì in superficie assieme al pus. L’agonia nei suoi occhi divenne rossa, rossa con lampi bianchi. Persino l’uomo chiamato Ben Fry era stupefatto di quanto facesse male.

Improvvisamente, con un suono quasi ridicolo, la pelle si squarciò, così, come quando si schiaccia un foruncolo. Spostò la coperta per vedere e scorse il pus, giallo, che gli colava lungo la gamba, bagnando i pantaloni. Con un sordo grugnito affondò ancora di più le dita. Finalmente riuscì a toccare la capsula, man mano che il pus usciva. Non riusciva a credere che ce ne fosse tanto. Poi venne il sangue, acquoso, pallido. E in quel misto di umori rossi e gialli apparve la punta scura della capsula.

La prese con l’altra mano, fra il pollice e l’indice. Le lacrime gli scendevano dagli occhi mentre la recuperava.

La capsula era scivolosa e sporca. La pulì nel lenzuolo per riuscire ad afferrarla, poi la spezzò a metà. Era stata progettata per aprirsi senza difficoltà e ognuna delle due parti, una rossa e una azzurra, aveva un’estremità piatta e una a punta. Con la parte appuntita di una bucò quella piatta dell’altra e ripeté l’operazione sulla seconda.

Aveva circa sei minuti prima che la telecamera riprendesse nuovamente la sua cella. C’era tutto il tempo.

Ignorando il dolore, andò alla porta della cella e usò la capsula azzurra per prima. Ne depose il liquido in quattro punti, dove la porta scorreva e dove era collegata al meccanismo di apertura computerizzata. Lasciò in ogni punto un po’ del liquido viscoso e poi fece lo stesso con la capsula rossa. I fluidi si mischiarono.

L’uomo chiamato Ben Fry tornò dall’altra parte della cella e si accovacciò con la testa bassa e le mani dietro il collo. In quella posizione vedeva la macchia scura allargarsi lentamente sulla gamba dei pantaloni. Sentì una leggera agitazione pervaderlo in quel momento di attesa, ma non aveva paura. Aveva calcolato tutto, ogni passo. Il suo piano era perfetto, come sempre. Bisognava solo attuarlo.