Gli era veramente grato di averlo reintegrato nell’operazione. Solo poche ore prima stavano per sparargli. Solo quarantacinque minuti prima era in ginocchio mentre Hirschorn lo schiaffeggiava, mentre ordinava di portare via sua moglie.
Da quando era stato cacciato dall’esercito, le cose erano andate male. Ma ora, grazie a quell’uomo, aveva un’altra possibilità. Era lui il pilota. Sarebbe morto per il suo capo. Lo amava.
L’Apache sorvolò le cime degli alberi a una velocità opportuna per l’oscurità, circa settantacinque nodi. Chris osservava il paesaggio monotono sul GPS.
«Dovremmo essere a circa trentacinque miglia a nord-est», disse Hirschorn.
Chris annuì. «Roger.»
Erano a mezz’ora dal bersaglio.
64
Nel carcere, nessuno sospettava niente. Nessun allarme era scattato quando l’uomo chiamato Ben Fry aveva fatto saltare la porta. Non esisteva un allarme per questo evento, perché non era ritenuto possibile. Ci fu solo una luce rossa che si illuminò in una delle cabine di controllo per segnalare che una porta era aperta. Sfortunatamente, in quel momento nessuno stava guardando.
L’agente di turno, Mike O’Brien, aveva un volto amichevole, capelli rossi, penetranti occhi irlandesi. Era basso e muscoloso, con un po’ di pancetta. Aveva trentaquattro anni.
Era entrato nelle guardie carcerarie dopo essersi congedato dall’esercito. In un primo tempo non aveva avuto problemi a passare da un’occupazione all’altra, ma poi si era sposato e aveva cercato un posto fisso. Il lavoro di secondino si era rivelato adatto allo scopo. Certo non era il più bello al mondo, ma era sicuro e regolare. I turni rendevano possibile programmare la propria vita e passare del tempo con la moglie e la figlia, cosa che per lui era la più importante. Sua moglie Maura era un’esile donna che guidava la vita del marito con polso fermo. Caitlin, la bambina, aveva due anni ed era adorata dai genitori.
Quando la luce di segnalazione si era accesa, Mike stava tenendo d’occhio i monitor e pensando a un locale di nome McGill. Era il locale frequentato dalle guardie carcerarie sposate, al contrario di Blinky Mae, dove i suoi colleghi scapoli andavano in cerca di avventura. Da McGill c’era una bella sala con tavolini per cenare, il biliardo e dei videogiochi per distrarsi. C’era anche il karaoke, che piaceva tanto a Mike. A volte anche lui, quando l’atmosfera si scaldava un po’, si lasciava convincere a cantare. Aveva una bella voce tenorile e, nonostante la sua predilezione per le vecchie ballate irlandesi che gli aveva insegnato il padre, al bisogno diventava bravissimo nel rock-blues. Con due birre in corpo e un paio di voci femminili ai cori, era pronto per dare il meglio di sé. Alcuni suoi colleghi di colore lo prendevano in giro. «A vederti sei un pallido bastardo irlandese», dicevano, «ma dentro sei un vero fratello.» Mike adorava tutto ciò.
Dunque stava pensando a McGill, stava controllando i monitor e sorrideva tra sé, intonando le prime battute di Danny Boy. Quando la luce rossa si accese, lui non la vide. Poi, con un’esplosione quasi silenziosa, la porta a sbarre del corridoio B saltò.
L’uomo chiamato Ben Fry, tenendo d’occhio Mike, aveva atteso, addossato al muro, il momento opportuno per sgattaiolare lungo il corridoio. Aveva poi applicato i suoi composti chimici sulla porta a sbarre e aspettato in un punto buio che facessero il loro effetto.
Mike non udì il sibilo delle sostanze che si combinavano, né la porta che si apriva. Ma quando essa si richiuse, ne percepì il movimento con la coda dell’occhio. Buttò uno sguardo oltre la finestra della cabina di controllo. La porta era chiusa e nel corridoio, oltre le sbarre, non c’era nessuno. (L’uomo chiamato Ben Fry a questo punto era già contro la parete della cabina, al di sotto del vetro e quindi invisibile a Mike.) Mike non notò niente di anomalo.
Si voltò di nuovo e fu allora che, finalmente, si accorse della lucina rossa. La porta di una cella risultava aperta e… ora anche quella del corridoio B.
Che cosa stava succedendo? Mike socchiuse gli occhi azzurri nel guardare le due luci rosse, e pensò a un contatto. Non poteva essere altro. Sentì il cuore saltare un battito, all’idea di essere stato lui a toccare qualcosa e aprire le porte. Ma, ripensandoci, capì che non era possibile. Doveva essere un contatto.
Guardò di nuovo la porta del corridoio B. Aveva l’aspetto di sempre. E come poteva essere diversamente?
Poi un dubbio si fece spaventosamente strada dentro di lui e Mike guardò meglio. Non era possibile che la porta fosse solo socchiusa, vero? Eppure a Mike sembrava quasi che fosse così.
Mike guardò di nuovo le spie rosse e poi la porta del corridoio, al di là dello spesso vetro antiproiettile.
Poi fu la porta della stessa cabina di controllo ad aprirsi violentemente verso l’esterno. Sorpreso, o piuttosto sbalordito, Mike si girò in fretta sulla sedia. Persino in quel momento non riusciva a capire che cosa stesse succedendo. In piedi davanti a lui c’era il detenuto noto come Ben Fry.
Mike non pensò, ma si slanciò verso il pulsante delle emergenze, allungando il braccio per schiacciare il disco rosso che avrebbe fatto suonare l’allarme. Ma era troppo tardi. L’uomo chiamato Ben Fry gli fu addosso in un attimo, troppo velocemente perché Mike potesse reagire. Come da lontano, lo vide afferrargli la mano, scostarla dal pulsante e spezzargli il polso. Non ebbe neanche il tempo di sentire il dolore. Non riuscì neppure a urlare, vide solo il volto senza espressione di quell’uomo, gli occhi opachi di chi sta solo svolgendo un lavoro. Poi Mike morì.
L’uomo chiamato Ben Fry depositò il cadavere della guardia sul pavimento e si acquattò, per non essere visto. Spogliò velocemente il corpo e si tolse di dosso la casacca e i pantaloni da detenuto. Gli indumenti di Mike erano un po’ larghi, ma non tanto da costituire un problema. Bastò stringere bene la cintura per tenere a posto i pantaloni.
Poi, l’uomo chiamato Ben Fry si chinò sulla testa di Mike. I Lineamenti cordiali della guardia irlandese erano sfigurati e c’era un buco rosso al centro, nel punto in cui l’assassino gli aveva spinto la cartilagine del naso nel cervello. Ma gli occhi erano ancora intatti, aperti e fissi. L’uomo chiamato Ben Fry inserì il pollice nell’angolo del destro. Ne aveva bisogno per il controllo automatico della retina.
Quando ebbe fatto anche questo si pulì le mani nei vestiti da detenuto, si alzò in piedi e osservò il pannello centrale della cabina di controllo. Si concesse qualche istante per orientarsi, sebbene avesse studiato le piantine e sapesse già che cosa fare. Era tutto perfettamente pianificato, come al solito. L’uomo chiamato Ben Fry sapeva esattamente che cosa fare, e ora niente poteva fermarlo.
65
Weiss, nella solita poltrona, si sporse improvvisamente in avanti, di scatto. Mentre era immerso nella sua frustrazione, in attesa di avere le notizie sul disastro, gli era caduto lo sguardo su una cosa appoggiata ai margini della luce proiettata dal computer. Ora la prese in mano. Era il mio rapporto, le pagine del mio rapporto sul reverendo O’Mara. Non gli aveva prestato molta attenzione fino a quel momento, perché troppo impegnato con Shadowman. Ma ora una catena di collegamenti si formò all’improvviso nel suo cervello. Il fatto che avessi deluso le sue aspettative, che non avessi notato le incongruenze che secondo lui avrei dovuto vedere… Il fatto che mi ero ubriacato, e continuavo a insistere che il prete era pulito… In un attimo ebbe una visione chiara di tutta la faccenda, come spesso succede. Si rese conto che avevo risposto pienamente alle sue aspettative, e non mi ero ubriacato perché non avevo scoperto nulla, ma perché avevo scoperto tutto e nascosto la verità.