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Nervosamente, il vecchio guardò l’orologio. «Trenta secondi», disse.

«Cristo, sembra che stiano cercando…»

«Fuoco! Fuoco!» urlò Hirschorn. «Spara!»

Chris esitò un istante, perché era troppo presto. Poi l’ordine penetrò nel suo cervello. Rapidamente sollevò il copri-pulsante e premette il pollice sul grilletto. L’Apache sussultò alla partenza del missile. Un attimo dopo Chris lanciò anche il secondo Hellfire.

Le esplosioni si susseguirono vicinissime. Le fiamme salirono simili a piume arancione dalla torre di guardia, poi un’altra palla di fuoco si accese appena oltre la prima, sfondando il recinto più interno. Chris si dimenticò di tutto il resto, a quella vista. Alla luce della seconda esplosione vide la sagoma della torre di guardia afflosciarsi e crollare. Lanciò un terzo missile e un quarto. Ne aveva ancora altrettanti. Sentiva il cuore pieno di elettricità e rise, urlando di piacere. Era il più bel momento della sua vita.

«Che cosa diavolo…» sentì esclamare Hirschorn.

La bocca di Chris era ancora aperta quando una palla di luce di staccò dall’incendio sotto di loro e si diresse verso l’elicottero, superando gli alberi.

68

«Signor Weiss?»

«Sì», mormorò rauco il detective al telefono.

«Sono Norman Kamen, dell’ufficio del governatore.»

«Sì», rispose Weiss, trattenendo il respiro.

«Il governatore voleva farle sapere che gli allarmi di emergenza della prigione sono stati attivati. Sembra essere stata confermata la presenza di un velivolo da guerra non identificato. Le guardie della prigione si stanno armando di conseguenza.»

Gli occhi di Weiss brillarono alla luce del computer. La mano strinse più forte il ricevitore. «La prigione è stata chiusa?»

«Completamente. Non ci sarà nessuna evasione stanotte, mi creda.»

Weiss annuì, fissando il nulla. Fissando, invisibile a tutti, la ragazza sullo schermo.

«Signor Weiss», ripeté la voce di Norman Kamen. «Il governatore desidera esprimerle il suo ringraziamento per l’informazione.»

Weiss continuava ad annuire, senza ascoltare. Dopo aver riattaccato, rimase seduto sul bordo della poltrona. La mano sudata si chiuse a pugno. Un lieve sorriso gli apparve sulla bocca triste.

«Ti ho beccato, figlio di puttana», mormorò.

69

Passò ancora un lungo momento prima che l’uomo chiamato Ben Fry si rendesse conto della catastrofe. Era inconcepibile per lui pensare che il suo piano fosse fallito, che l’unica cosa al mondo che aveva veramente voluto gli sfuggisse dalle mani all’ultimo istante.

Guardava con occhi di fuoco il prigioniero davanti a lui, nell’angolo, Whip Pomeroy, l’unico che poteva condurlo da Julie Wyant. Lo guardò come se una cortina di nebbia fosse salita fra loro; non c’era più la sua faccia, ma quella della ragazza, della ragazza che rideva.

Non sapeva come definire i suoi sentimenti, quello che lei gli aveva fatto, come si era sentito diverso nel momento in cui l’aveva vista. Lo ricordava, quel momento. Era stato come se un sogno che non aveva mai osato sognare si fosse manifestato a lui vivo e reale. Si era reso conto, con un’unica occhiata, che l’immagine di lei era cresciuta in lui per tutti quegli anni, come una sua creazione, e che adesso era lì, una donna vera, ma al tempo stesso una parte di lui. Ed era la parte di se stesso che amava di più e anche quella che più desiderava devastare brutalmente. In un certo senso erano un’unica cosa, l’amore e la brutalità.

Non avrebbe saputo trovare le parole per tutto questo. Non c’erano parole, solo le cose che la sua carne era spinta a farle. Le urla che lui aveva necessità di estorcerle, le lacrime che voleva vedere. Quando le aveva fatto male, quando l’aveva costretta a urlare, avrebbe voluto chiudere le lacrime in una bottiglia per poi iniettarsele nelle vene, avrebbe voluto vagare sulle montagne e vivere del dolore e delle lacrime di lei fino alla fine del tempo.

Aveva cercato, quella volta, quell’unica volta in cui non era riuscito a controllarsi, di spiegarle tutto questo. Ma non c’erano parole adatte… e lei aveva riso. Con quel viso d’angelo che lui aveva così spesso sognato e le labbra rosse. Anche se piangeva, anche se sanguinava, anche se era nuda e pesta ai suoi piedi, rideva. E questo era male, perché lo aveva indotto a farle ancora più male, ad amarla di più. Si era messo davanti a lei, si era spogliato, umiliato e, nonostante questo, lei aveva riso.

Pomeroy l’aveva sentita. Pomeroy era nella stanza accanto.

Ed eccolo qui, Pomeroy. Rintanato come un coniglio in fondo alla cella. L’uomo chiamato Ben Fry sapeva che gli bastavano trenta secondi. Non più di trenta secondi per avere l’informazione. Per sapere quello che voleva e distruggere dalla memoria di quell’uomo il ricordo della risata di Julie. Poi l’uomo chiamato Ben Fry se ne sarebbe andato, l’avrebbe cercata e trovata, l’avrebbe avuta ancora. Questa volta l’avrebbe portata via, in qualche posto, da qualche parte. Questa volta l’avrebbe tenuta con sé finché avesse voluto, finché si fosse saziato del suo dolore. Poi tutto sarebbe finito. Lei sarebbe ritornata a essere una parte di lui e quel ricordo dell’umiliazione sarebbe scomparso. Trenta secondi. Trenta secondi e avrebbe avuto ciò per cui era venuto.

Ma mentre le sirene suonavano in tutta la prigione, tutt’intorno a lui, l’uomo chiamato Ben Fry si rese conto che trenta secondi erano più del tempo che aveva a disposizione per portare a termine ciò per cui era venuto.

Le porte di sicurezza stavano iniziando a chiudersi, precludendogli la fuga. Le guardie si stavano armando e il perimetro veniva bloccato. Sapeva che probabilmente l’avevano scoperto, che gli sarebbero stati addosso da un momento all’altro. Se non si muoveva subito, esattamente in quel momento, avrebbe perso l’appuntamento con l’elicottero, avrebbe mancato le corde che dovevano lanciargli, avrebbe abbandonato l’occasione di fuga e sarebbe rimasto in quel posto, quel posto nel mezzo del nulla, per sempre. Per sempre e da solo, con l’immagine di un volto che rideva di lui negli occhi.

Spostò l’attenzione da Pomeroy e cominciò a correre.

Le sirene erano incredibilmente forti. Il rumore dilagava nella sua testa, scuoteva i suoi pensieri e li frantumava. Superò in un lampo il punto di controllo principale, scavalcando il corpo delle guardie uccise. Girò l’angolo.

Ed eccole, a pochi metri da lui, in fondo al corridoio. Porte d’acciaio che si chiudevano automaticamente una verso l’altra.

Quanto spazio c’era, fra loro? Un metro e mezzo? Uno solo? Sempre meno ogni secondo che passava. Le sirene gli martellavano il cervello e la mente correva. Ma sentiva anche il rumore delle esplosioni, i missili Hellfire che colpivano. Sapeva che erano loro, che erano la sua speranza. Se riusciva a infilarsi in quella fessura aveva una possibilità. Se quelle porte si chiudevano… Si immaginava come sarebbe stato restare bloccato lì, con la mente ferma, vulnerabile, a cercare disperatamente di visualizzare la torre della calma mentre, giorno dopo giorno, gli orrori che se n’erano andati da lui come topi tornavano a divorarlo.

Le porte d’acciaio erano sempre più vicine. L’uomo chiamato Ben Fry scattò come un atleta. Le sirene… il suo respiro affannoso… il suo cuore che pulsava. E poi il passaggio, schiacciato fra i due battenti, prima un braccio, poi una gamba e tutto il corpo, a terra, ma in salvo, mentre le porte si chiudevano definitivamente.