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Cotopaxi. Certo. Il transtemporalista gli ha dato un biglietto di prima fila per la grande catastrofe. Questa è la città di Quito, dunque, Ecuador, e quello, con la sua striscia di fumo a sudest, è il Cotopaxi, il più imponente dei vulcani attivi sparsi per il mondo, e oggi dev’essere il diciannove agosto del 1991, una data che tutti ricordano; e Shadrach Mordecai sa che, prima che il sole abbia toccato il Pacifico stanotte, il mondo si scuoterà come raramente ha fatto in tutta la storia dell’umanità, e un’era si concluderà e un regno di fuoco si scatenerà sulla civiltà. E lui è l’unica persona al mondo a saperlo, ed eccolo che aspetta ai piedi del grande Cotopaxi e non può far niente. Niente. Nient’altro che osservare, e tremare, e forse morire con il mezzo milione di persone che moriranno qui questa notte. Si può morire, si domanda, mentre si sta viaggiando in questa maniera? È solo un sogno, un sogno, un sogno, e i sogni possono forse uccidere? Anche se sogna un’eruzione, anche se sogna tonnellate di lava e di zolfo che gli scendono sul corpo spezzato?

Il ragazzo è ancora lì, in piedi, lo sta fissando.

— Gracias, amigo.

— De nada, señor.

Il ragazzo indugia, forse in attesa di una moneta, ma Shadrach non ha monete da dargli, e dopo qualche istante quello se ne corre via, fermandosi una decina di passi dopo per voltarsi e mostrare la lingua, poi riprende a correre, sfreccia in un vicolo, scompare.

E un momento più tardi dal Cotopaxi viene un rumore terribile, e una colonna bianca ampia almeno cento metri sorge dritta come uno scettro da un cratere secondario sul declivio laterale del vulcano.

Subito la città si paralizza completamente. Tutti restano assolutamente immobili; tutte le teste si voltano verso il Cotopaxi. La colonna bianca, che si riversa fuori dallo sfiato a una velocità incredibile, raggiunge già i mille metri almeno al di sopra della vetta del Cotopaxi; si apre ora, riempie il cielo come un ampio ciuffo di piume, una cappa di vapore animato da vita propria. Mordecai coglie un ronzio sordo, un rumoreggiare tonante, come di un treno che attraversa la città, ma un treno per giganti, un treno titanico che fa ondeggiare le lanterne e fa cadere i vasi di fiori dai balconi. La nuvola di vapore è diventata grigia in cima, sfuma verso il rosso e il giallo alle estremità.

— Aie! El fin del mundo!

— Madre de Dios! La montaña!

— Ayuda! Ayuda! Ayuda!

E la fuga da Quito ha inizio. Non è ancora successo niente, nient’altro che un ruggito e un sibilo e una colonna di vapore che si è lanciata verso il cielo, ma nella città la gente abbandona le case, portando con sé poco o niente; afferrano magari un crocifisso o un bambino o un gatto o pochi vestiti, affollano le strade, scendono cupi e rapidi verso nord, lunghe file di persone che si muovono con le spalle chine, nessuno si volta a guardarsi dietro, tutti sono diretti via dalla città, via dal Cotopaxi, dalla spaventosa nuvola color cremisi che ora incombe sul monte; via dalla morte che presto arriverà a Quito. Questa è gente che sa il fatto suo quando si tratta di vulcani, e non si lascia tentare dall’idea di restare a godersi lo spettacolo. Shadrach Mordecai è trascinato dalla marea umana. Torreggia su questa gente come il vulcano sulla città, ed è oggetto di occhiate strane, e alcuni si aggrappano alle sue braccia come facendo appello a lui, come se pensassero che è una specie di divinità nera venuta a portarli in salvo. Ma lui non guida nessuno. Lui segue, fugge senza poter fare altro, come tutti. A differenza degli altri, lancia di tanto in tanto uno sguardo dietro le spalle. Quando gli è possibile, quando la pressione dell’onda di profughi non è troppo forte, si ferma e si volta a guardare cosa sta succedendo. Il vulcano ora sputa piccoli getti di lava e di ceneri leggere, materia polverosa che, trasportata dal vento, cambia il colore dell’aria, tingendola di giallo, virando le sfumature del sole verso un rosso aranciato. La terra pare brontolare. La città si scuote tutta. Automobili cariche di cittadini ben vestiti si spostano lentamente attraverso le strade, incapaci di farsi largo tra le masse di pedoni in fuga; ci sono collisioni, grida, litigi. Dopo non molto le macchine si sono fermate del tutto e i loro passeggeri, con espressioni cariche di disprezzo, si fanno strada tra le file della gente più umile. E da un’ora o due che Shadrach sta marciando ormai, forse addirittura da tre, trascinandosi meccanicamente; l’aria è divenuta rarefatta e gelata, con un acre odore di zolfo, e sebbene sia solo metà pomeriggio la pioggia di cenere ha oscurato la luce a tal modo che i lampioni nelle strade si sono accesi — la cenere si accumula per i viali come neve leggera, arriva già alla caviglia — e il Cotopaxi non ha smesso di ruggire e sibilare, la gente non ha smesso di andarsene verso il nord. Mordecai sa cosa sta per succedere. Con l’inquietante visione bifronte che è propria di chi viaggia nel tempo, guarda in avanti oltre che dietro di sé, ricordando il futuro. Tra non molto ci sarà l’esplosione che sentiranno a mille miglia di distanza, il terremoto, le nuvole di gas venefico, il riversarsi folle di tonnellate di cenere vulcanica che oscurerà il sole su tutto il pianeta, e in questa notte di Cotopaxi gli antichi dèi si scateneranno sulla terra e gli imperi del mondo si sbricioleranno. Lui ha già vissuto questa notte una volta, ma non con la consapevolezza che ha ora. Da qualche parte, molto lontano, in questo momento c’è Shadrach quindicenne, tutto braccia e gambe e grandi occhi; segue le sue lezioni e sogna la scuola di Medicina, e anche lui sentirà il rumore dell’esplosione, pur attutito e sordo dopo aver percorso il mondo da Quito a Filadelfia, e penserà che si tratta forse della bomba di un terrorista nel centro della città, ma al mattino vedrà il cielo tinto di giallo e il sole gonfio e rosso, e poi la polvere sottile continuerà a cadere per giorni, affrettando il crepuscolo in quelle sere d’estate, e dal Sudamerica filtreranno notizie della terribile eruzione, della perdita di centinaia di migliaia di vite. Quel che il giovane Shadrach non sa, quel che nessuno sa, tranne lo straniero che marcia per i dintorni settentrionali di Quito sotto una nuvola di cremisi sporco, è che l’eruzione del Cotopaxi è più che un evento naturale: è il segnale di un’apocalisse politica, la caduta delle nazioni che sta per iniziare, il tempo di Gengis Mao che sta per arrivare.

— El fin del mundo!

Sì. Sì. La fine del mondo.

E ora giunge l’esplosione.

Avviene in fasi distinte, prima cinque colpi rapidi e secchi come spari di cannone; poi un lungo momento di silenzio totale in cui perfino il brontolio persistente che è andato avanti per ore si interrompe improvvisamente; quindi un violento scuotersi della terra e un singolo, mostruoso suono tonante, il suono più forte che Mordecai abbia mai udito, un suono che infrange le finestre e sventra i muri; poi ancora silenzio; poi il brontolio ancora una volta; poi di nuovo cannonate, bang bang bang, scoppi rapidi e duri; poi un secondo grande tuono, cinque volte più potente del primo, che getta la gente in ginocchio, le mani a proteggere le orecchie; poi silenzio, un silenzio minaccioso, sinistro, che paralizza i nervi; e poi il suono supremo e definitivo, il suono di un pianeta il cui stesso cuore si sta lacerando, un’interminabile grottesca valanga di suono che afferra le persone e spezza loro il collo, fa contorcere selvaggiamente le braccia, ballare gli occhi nelle orbite, un suono che rotola sopra Quito come se un dio infuriato la stesse calpestando. E il cielo diventa nero e un torrente di fuoco rosso sgorga fuori dal Cotopaxi e brucia con un bagliore mostruoso all’orizzonte. La montagna pare aprirsi in due. Shadrach riesce a distinguere grossi pezzi della cresta, lastroni di roccia che devono avere le proporzioni di grandi edifici, volare via liberi e levarsi per l’aria, lenti e maestosi, verso Quito. Il cono perfetto, un tempo aggraziato come il monte Fuji, è adesso una rovina, un ammasso di frammenti, appena visibile attraverso la densa nuvola di cenere e le sfere volanti di lava; non resta che una base decapitata, deformata e cadaverica. L’aria stessa sta bruciando. Non cessano gli sforzi sovrumani di uomini e donne che fuggono, muovendosi ancora più lentamente, trascinandosi su gambe divenute piombo verso una salvezza che non sarà possibile raggiungere; ma li coglie il vomito, portano le mani alla gola, cercano disperatamente di respirare, soffocano, crollano a terra.