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Shadrach, ormai furioso, è trattenuto ancora per circa un minuto nella camera d’attesa interna; alla fine questa cede, e lui procede rapido attraverso il Vettore di Sorveglianza Uno, che è deserto, fino alla camera da letto di Gengis Mao. Qui il rilevatore secondario della porta non lo frena per più del solito microsecondo, e lui irrompe per trovare Gengis Mao vivo e ben sveglio, seduto sul letto, circondato da cinque o sei servitori e da una decina o più di membri del Comitato: tutti in preda a un’attività frenetica ed eccitata che è assolutamente controindicata in questa fase del decorso postoperatorio del Presidente. Mordecai vede il generale Gonchigdorge, il vicepresidente Ionigylakis, il capo della Sicurezza Avogadro, perfino Béla Horthy, afflitto da postumi vistosi dopo la sua notte di eccessi a Karakorum. E a ogni istante arriva gente nuova. Shadrach è sgomento. Riesce a percepire la voce di Gengis Mao, chiara ma debole, attraverso il brusìo generale, ma c’è un tale affollamento attorno al letto che Mordecai non riesce a raggiungere il fianco del Khan.

— Terribile, terribile — dice Ionigylakis, scuotendo la testa da una parte all’altra come un orso ferito.

Shadrach si rivolge a lui. — Cosa sta succedendo?

— Mangu — risponde Ionigylakis. — Assassinato!

— Cosa? E come?

— Fuori dalla finestra. Giù dal balcone. — Il grosso greco mima con pesantezza l’azione con grandi gesti del braccio: la finestra aperta, i tendaggi mossi dalla brezza, la curva del corpo che esegue la sua rapidissima discesa di settantacinque piani, l’agghiacciante e improvvisa fine del tuffo aggraziato, l’impatto mostruoso al livello della piazza, il piccolo movimento finale di rimbalzo del corpo devastato.

Shadrach rabbrividisce. — Quando è successo?

— Dieci, quindici minuti fa. Horthy stava arrivando alla torre in quel momento. Ha visto tutto.

— Chi ha avvertito il Khan? Horthy?

Ionigylakis scrolla le spalle. — Come faccio a saperlo?

— Avrebbero dovuto aspettare. Lo shock di una notizia del genere…

— Quando l’ho saputo io, ero al mio posto nel Vettore di Comitato Uno e le luci si sono messe a lampeggiare in modalità d’emergenza. Poi ho visto gente che correva da tutte le parti, una cosa folle. Poi tutti sono accorsi qui dentro.

— Che è ancora più folle — dice Shadrach, freddo. — Fare tutto questo rumore, sconvolgere il sistema nervoso del Khan, riempire la stanza di batteri potenzialmente pericolosi… a nessuno è rimasto un po’ di senno? Gli stiamo mettendo a repentaglio la vita, con questo caos. Mi aiuti a far sgombrare la stanza.

— Ma è stato il Khan a convocare queste persone!

— Questo non ha importanza. Non ha bisogno di tutti. Il responsabile per la sua salute sono io, e voglio che tutti spariscano di qui tranne… mmm… Avogadro e Gonchigdorge, e magari Eyuboglu.

— Ma…

— Non c’è nessun ma. Tutti gli altri farebbero meglio a tornarsene al Vettore di Comitato Uno, pronti a occuparsi di guai ulteriori se guai ulteriori ci saranno. E se questo fosse l’inizio di un’agitazione rivoluzionaria mondiale? Chi affronterà la crisi se siete tutti qui dentro? Via. Via. Voglio che la stanza si sgombri. Faccia uscire tutti, per favore. È un ordine.

Ionigylakis ha ancora un’espressione dubbiosa, ma dopo un momento di esitazione annuisce e inizia a spingere la gente verso la porta con entusiasmo, intimando loro di andarsene, mentre Shadrach, richiamando l’attenzione del capo della Sicurezza, gli dice di disporre i suoi uomini nell’anticamera a impedire nuove visite.

Shadrach si avvicina al letto. Gengis Mao ha un aspetto teso e provato, la fronte umida, lucida, la pelle ha una sfumatura pallida e grigiastra. Respira a fatica e gli occhi, sempre irrequieti, si muovono ora con un’intensità maniacale. Il sistema di sostegno si è attivato da solo e sta fornendo al Khan un flusso regolare di glucosio, cloruro di sodio e plasma sanguigno; Shadrach dà una rapida occhiata ai valori sul pannello di controllo e li integra con le informazioni telemetriche, valuta il livello di potassio nel sangue e di magnesio nel plasma di Gengis Mao, la sua permeabilità capillare, la vasocostrizione arteriolare, la pressione venosa, e regola manualmente le erogazioni del sistema di sostegno. — Cerchi di rilassarsi — dice a Gengis Mao. — Appoggi lì la schiena. Lasci andare le braccia.

— L’hanno ucciso — dice aspro il Khan. — Ha sentito? L’hanno lanciato fuori dalla finestra.

— Sì, ho sentito. Si sdrai, per favore, signore.

— I sicari devono essere ancora da qualche parte in quest’edificio. Gestirò l’investigazione io stesso. Mi porti al Vettore di Sorveglianza Uno, Shadrach.

— Questo non è possibile. Dovrà restare qui, signore.

— Non mi parli a quel modo. Avogadro! Avogadro! Mi metta su quella sedia a rotelle!

— Mi dispiace, signore — mormora Shadrach, facendo segnali frenetici dietro la schiena, all’indirizzo di Avogadro, perché questo ignori l’ordine di Gengis Mao. Allo stesso tempo, Shadrach preme un pedale che immette un flusso di 9-pardenon calmante nel corpo del Presidente. — Lasciare il letto ora potrebbe essere fatale per lei, signore. Mi capisce? Potrebbe ucciderla.

Gengis Mao capisce. Sprofonda con la schiena contro il cuscino, quasi sollevato di doversi sottomettere all’autorità di altri, e non appena iniziano gli effetti della droga il volto gli si fa più rilassato, i suoi modi molto più posati. Gengis Mao è molto più debole, si rende conto Shadrach, di quanto indichino gli strumenti. — L’hanno ucciso — ripete il Khan con voce assente, rimuginando. — Non era che un ragazzo e l’hanno ucciso. Non aveva nemici. — Shadrach osserva esterrefatto che le labbra del vecchio cominciano a tremare, gli occhi gli si riempiono di lacrime. Eh? Cos’è questa storia? Gengis Mao mostra delle autentiche emozioni? Una specie di dolore quasi paterno si è impadronito del vecchio? Ma com’è possibile, considerando la triste sorte che lo stesso Gengis Mao aveva in serbo per Mangu? O l’operazione di ieri ha indebolito il Khan al punto di renderlo insolitamente sentimentale, spingendolo improvvisamente a inconcepibili debolezze da vecchio, oppure Mordecai sta fraintendendo i segni: non è dolore, bensì paura, coscienza di un pericolo personale, consapevolezza che se dei sicari sono stati in grado di raggiungere Mangu potrebbero ben trovare un giorno il modo di violare il sancta sanctorum di Gengis Mao. Dev’essere così. Il Khan è arrabbiato e impaurito, ma a causa della debolezza fisica che lo limita in seguito all’operazione, la sua rabbia e la sua paura prendono momentaneamente l’aspetto di rimpianto. E infatti dopo qualche momento Gengis Mao torna calmo di nuovo, e dice, in una voce bassa, controllata, che ha ritrovato un suo vigore: — Questo è il primo attacco contro la nostra sovranità che abbia avuto successo. Non ha precedenti, e dobbiamo reagire con forza per dimostrare che non abbiamo perso niente del nostro vigore e che la nostra autorità non può essere scalfita. — Con un cenno fa avvicinare Avogadro al suo fianco e comincia a dettare istruzioni per arresti di massa, interrogatori generalizzati di sospetti sovversivi, il rafforzamento delle misure di sicurezza sia all’interno della Gran Torre che a Ulan Bator in generale. Ora suona più come un despota minacciato che come un anziano in lutto. La perdita di Mangu, diviene rapidamente chiaro, rappresenta poco o niente per lui sul piano personale, dato che Mangu è sempre stato così insignificante, ma è un inquietante presagio di una crepa nel potere del suo regime, e richiederà un periodo di terrore.