— Cioè?
— Cosa posso avergli detto? — dice Horthy in tono infastidito. — Che Mangu era caduto dalla finestra, naturalmente.
— È così che l’ha messa? “Mangu è caduto dalla finestra”?
— Qualcosa del genere.
— Ha parlato di spinte, magari?
— Perché mi sta interrogando, dottor Mordecai?
— La prego. È importante. Ho bisogno di sapere se il Khan è arrivato da solo all’idea che Mangu è stato ucciso, oppure se senza volerlo gli ha messo l’ipotesi in testa lei.
Horthy fissa Shadrach Mordecai con uno sguardo carico d’odio e di minaccia.
— Gli ho detto esattamente quello che ho visto: Mangu che cadeva dalla finestra. Non ho tratto conclusioni riguardo a come questo fosse successo. Se anche qualcuno l’avesse lanciato fuori, cosa avrei potuto vedere io, quattrocento metri più in basso? A quella distanza anche Mangu non era più grande di un sassolino, con il cielo sullo sfondo, non più di una bambola. Non l’ho riconosciuto fino a poco prima che toccasse terra. — Negli occhi di Horthy compare un’espressione di sconcerto. Si fa più vicino a Shadrach e gli parla in tono intenso, quasi cantasse una canzone appassionata: — Sembrava così sereno, dottor Mordecai! Volava là in alto, sopra di me… gli occhi spalancati, i capelli che seguivano dritti la sua testa, le labbra tirate indietro… sorrideva, credo. Sorrideva! E poi si è schiantato al suolo.
Ionigylakis, che ha evidentemente origliato fino a ora, esclama: — Questo è ben strano. Se qualcuno l’avesse appena lanciato fuori da una finestra, avrebbe avuto l’aria così allegra?
Shadrach scuote la testa. — Dubito che Mangu fosse cosciente nel momento in cui Horthy è riuscito a riconoscere la faccia. Quell’espressione serena era probabilmente estasi da accelerazione.
— È possibile — dice rapido Horthy.
— Andiamo avanti — lo invita Shadrach. — Ha informato il Khan che Mangu era caduto. Poi cos’è successo?
— Si è alzato a sedere così di scatto che per un attimo ho temuto che avrebbe danneggiato tutto il macchinario attorno a lui. È diventato tutto rosso e ha cominciato a sudare. Faceva fatica a respirare. Oh, è stato tremendo, dottor Mordecai. Ho pensato che stesse per morire per la sovreccitazione. Ha cominciato ad agitare le braccia, a urlare di assassini… poi, improvvisamente, è tornato a sprofondare contro il cuscino, ha portato le mani al petto…
— Ha pensato che stesse per morire per la sovreccitazione — dice Shadrach. — Prima, però, non le è mai passato per la mente che potesse essere una mossa poco saggia preoccuparlo con una notizia del genere, nello stato in cui era?
— Non si pensa in maniera lucida, in momenti del genere.
— È necessario farlo se si è in posizione di alta responsabilità.
— Non si giudica sempre tutto in modo perfetto — ribatte Horthy. — Specialmente quando si è appena rischiato di essere uccisi a nostra volta da un corpo che piombava giù dal cielo. E quando ci si rende conto che il morto è una figura di tale importanza nel governo, il successore stesso del Presidente. E quando si sospetta che la sua morte sia frutto di un omicidio, un assassinio, l’inizio di una rivoluzione. E quando…
— Va bene — dice Shadrach. — Va bene. È riuscito a sopravvivere a uno shock che poteva essere semplicemente evitato. Ma quel che lei ha fatto è stato molto pericoloso, Horthy. Peggio: è stato stupido. Estremamente stupido. — Inarca le sopracciglia. — Lei dunque pensa che ci sia stato un complotto?
— Non ho idea. È certamente una possibilità.
— Lo stesso vale per il suicidio, però.
Ionigylakis dice: — Lei la pensa così, Shadrach?
— Sicuramente la pensa così Avogadro.
— Ma gli uomini di Avogadro hanno arrestato Buckmaster.
— Ho sentito. Povero diavolo. Povero folle. Mi fa pena.
Gonchigdorge sta ancora manovrando bottoni. Gli schermi sono pieni di volti assurdamente distorti, come se gli occhi-spia si stessero avvicinando troppo all’oggetto delle loro attenzioni. Dana Labile, all’altro capo della stanza, chiama ad alta voce Horthy, il quale lancia a Shadrach uno sguardo raggelato e indecifrabile e scivola via. Shadrach non riesce assolutamente a capire il comportamento di Horthy, ma improvvisamente questo non ha più importanza. Niente ha più importanza. Quella stanza è un manicomio, e lui ci si aggira a torso nudo, ha anche un po’ freddo, e l’attività frenetica attorno a lui lo sconcerta. Si sente troppo sano di mente, troppo terra terra, per questo ambiente. I monitor del Vettore di Sorveglianza Uno divengono improvvisamente vuoti, poi sempre più luminosi, con grandi strisce spezzate di colore blu, e verde, e rosso. Il generale Gonchigdorge, sempre intento a inseguire con mano pesante i suoi cospiratori, ha rotto qualcosa. — Ficifolia! — strilla il generale. — Trovatemi Frank Ficifolia! La macchina va riparata!
Ficifolia è già lì. Imprecando sottovoce, si fa largo attraverso la folla verso il generale seduto sul trono. Passando vicino a Shadrach, si ferma a bisbigliare: — Il tuo amico Buckmaster è nella stanza degli interrogatori in questo momento. Immagino che non ci piangerai sopra.
— Al contrario. Buckmaster era fuori di sé ieri notte, quando mi ha infastidito. E ora paga per questo.
— Lo sta interrogando Avogadro in persona, ho sentito dire.
— Avogadro pensa che si sia trattato di suicidio.
— Anch’io lo penso — dice Ficifolia, e prosegue.
Shadrach ne ha avuto abbastanza. Si dirige verso l’interfaccia. Non appena l’ha raggiunta, si volta a guardare l’agitazione della stanza, le sagome abbaglianti di colore nei monitor, Gonchigdorge che grida come un bambino, Horthy e Labile che confabulano con concitazione misteriosa, sottolineando la conversazione con un intenso gesticolare italo-magiaro; Ionigylakis incombe su tutti e declama le sue riflessioni confuse con voce tonante; Frank Ficifolia, seduto per terra davanti a un pannello aperto, cerca di inserire una lunga tenaglia sottile in un intrico turbolento di circuiti a bolla. Intanto da qualche parte nelle profondità di questo edificio enorme Avogadro, che non crede ci sia stato un delitto, si prepara a sottoporre a tortura Roger Buckmaster, sospettato di aver commesso quel delitto, nonostante Buckmaster quasi certamente non fosse in grado di uccidere nessuno quella mattina. E nella grande camera del Khan quell’uomo vecchissimo — il suo episodio semifatale di shock praticamente superato, a quanto suggeriscono le pulsazioni e i tremori che ticchettano nel corpo di Mordecai — giace a letto progettando con dedizione placida e dissennata il miglior modo di santificare la memoria del viceré scomparso, e di distruggere i suoi ipotetici assassini. Basta, basta. È più che abbastanza: è troppo. Shadrach richiede all’interfaccia l’autorizzazione all’uscita; la porta si apre con lodevole prontezza, ammettendolo all’anticamera di attesa e poi, rapidamente, al suo appartamento all’estremo opposto.
Che pace qui! Crowfoot è sveglia ed è scesa dall’amaca; ha appena fatto la doccia e si sta asciugando in piedi in mezzo alla stanza, nuda, stupenda; goccioline d’acqua risplendono ancora sulla sua pelle liscia e lucida, i capezzoli sono raggrinziti per l’umidità e turgidi nell’aria fresca. — Sono in ritardo spaventoso per il laboratorio oggi — dice in tono non troppo preoccupato. — Cosa è successo qua in giro?
— Tutto. Mangu è morto, il Khan ha sfiorato un colpo apoplettico quando l’ha saputo, hanno arrestato Buckmaster, è in corso una purga generalizzata di sovversivi. Horthy è…
— Fermati — lo interrompe lei, sbattendo gli occhi. — È morto? Mangu? Com’è successo?