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Entrando senza avvertire nel laboratorio del Progetto Avatar, a metà pomeriggio, Shadrach si trova di fronte Manfred Eis, l’assistente capo di Nikki Crowfoot, che emerge da un intrico di macchine e gli marcia incontro deciso come Thor sui sentiero di guerra: si arresta con uno scatto, e pare trattenersi a stento dal battere i tacchi.

— Siamo molto occupati in questo momento — annuncia Eis, trasformando quell’informazione in una sfida.

— Ne sono lieto.

— Lei è venuto per…?

— Una normale visita d’ispezione — risponde Shadrach in tono amabile. — Per vedere come si procede. È da un po’ che non vengo.

Effettivamente sono passate settimane dall’ultima volta in cui è entrato nel laboratorio di Avatar, poco prima della morte di Mangu, e normalmente il suo ritmo di lavoro lo portava a visitare ciascuno dei progetti almeno una volta al mese. Ma ora Eis non si sforza di farlo sentire benvenuto. Nei momenti migliori è un uomo dalle maniere formali, privo di senso dell’umorismo, un teutone da caricatura, rigido, mascella squadrata e spalle squadrate, molto nordico; gli occhi azzurri ghiacciati, denti perlacei, capelli biondi lunghi, gli manca solo la cicatrice del duello. Shadrach è abituato alla freddezza ariana del dottor Eis; ma oggi nei suoi modi c’è qualcosa di nuovo, una sorta di ostilità gratuita, un fare quasi paternalistico, un vago disprezzo, e Shadrach ne è turbato perché sospetta che abbia a che fare col suo improvviso coinvolgimento personale nelle sorti del Progetto Avatar.

Eis è contento che sia stato scelto Shadrach. Eis è gratificato. Eis pensa che sia assolutamente appropriato che sia toccata a Shadrach. È così. Forse è stato proprio Eis a suggerire a Gengis Mao l’idea di scegliere Shadrach. No, no, un tirapiedi come Eis non avrebbe mai potuto arrivare a parlare al Presidente; comunque, Eis deve aver gioito, sembra che gioisca ancora adesso. Shadrach non ama quello sguardo soddisfatto. Si chiede se non sia possibile trovare qualche utilizzo sperimentale appropriato per il nobile corpo nordico di Eis.

Nonostante tutto, formalmente è Shadrach che comanda qui, ed Eis deve cedere. Per quanto indaffarato sia il personale del laboratorio, Shadrach potrà fare la sua ispezione. E qui sono davvero tutti indaffarati, frenetici: sono in corso esperimenti di ogni sorta con animali di ogni sorta, mentre dei tecnici spostano macchinari da una stanza all’altra sudando e imprecando, e uomini e donne in camici da laboratorio si aggirano con occhi stravolti, brandendo tabulati. Un vero circo, assolutamente comico e maniacale, degli scienziati pazzi al lavoro, disperatamente intenti a far quadrare il cerchio entro la scadenza prefissata.

Shadrach si sente a disagio quando riflette sul fatto che è lui il cerchio che devono far quadrare. È lui il pollo, il babbione, la vittima, è suo il corpo che alla fine tutto questo macchinario si inghiottirà, e il tono maniacale delle operazioni attuali di Avatar è esclusivamente il risultato della necessità di riconvertire tutto, velocemente, dai parametri-Mangu ai parametri-Shadrach. Probabilmente qui ci sono almeno una decina di persone che conoscono il suo corpo, i ritmi delle sue onde cerebrali, i suoi circuiti neurali e i suoi livelli di serotonina meglio di come li conosca lui stesso. Molto probabilmente, da giorni lo tengono segretamente sotto attento esame. (Ruberanno unghie tagliate? ciocche di capelli?). Shadrach si chiede quanti dei tecnici del laboratorio siano a conoscenza del cambiamento di ospite. Si immagina che lo sappiano tutti, che lo adocchino segretamente affascinati mentre gli passano vicino, correndo avanti e indietro; che lo squadrino, che confrontino lo Shadrach Mordecai concreto e autentico con i grovigli di pulsazioni astratte e sintetiche di simulazione-Mordecai con cui stanno lavorando. Ma forse no. A quanto pare la prima volta erano in pochi, al Progetto Avatar, a sapere che Mangu sarebbe stato il donatore del corpo, e con ogni probabilità l’identità del sostituto di Mangu è stata rivelata a un numero ancora più ridotto di persone.

Nikki, in ogni caso, non pare presa dalla frenesia generale. Chiamata da Eis, saluta Shadrach in modo assolutamente privo di emozioni. Il Progetto, gli dice, sta facendo progressi regolari. Lo sguardo è fermo, la voce centrata e composta. “Progressi”, in questo laboratorio, può solo significare il processo quotidiano del portare Shadrach più vicino alla sua distruzione, e lei è certamente consapevole del fatto che Shadrach attribuirà questo significato alle sue parole; ma pare che abbia deciso di smettere di sentirsi in colpa, o di essere evasiva. Hanno già avuto il loro incontro, i conti sono stati regolati: lei ha ammesso di essere stata disposta a tradire il proprio amante a vantaggio di Gengis Mao; ora la vita continua, duri quanto deve durare, e lei ha un compito da svolgere. Tutto questo passa tra di loro nello spazio di novanta secondi, e niente è comunicato ricorrendo alle parole, bastano il tono della voce e l’espressione degli occhi. Shadrach si sente sollevato. Non gli piace che la gente si senta in colpa a causa sua; lo fa sentire in colpa a sua volta, in qualche modo oscuro.

— Dovrei dare un’occhiata ai macchinali — dice.

— Vieni.

Nikki lo porta in un giro guidato. Gli mostra lo zoo degli animali reincarnati, gli ultimi trionfi della trasmigrazione elettronica: questo è un cane con l’anima di un procione, che intinge diligentemente la sua cena in una ciotola d’acqua; questa è un’aquila che nel cranio ospita un costrutto codificato di pavone, che la spinge a marciare orgogliosa, a lisciarsi continuamente le penne col becco, a spalancare le ali; qui hanno insinuato l’essenziale ovinità di una pecora in una giovane leonessa, che se ne sta placidamente sdraiata a masticare foraggio, a probabile danno del suo sistema digestivo. Tutte queste bestie rinate hanno uno sguardo intrappolato, confuso, come se un insaziabile parassita le stesse rodendo dal di dentro, e Shadrach chiede a Nikki se questa sarà anche una caratteristica degli avatar umani, se non c’è il rischio che l’anima sfrattata del donatore rimanga come un miasma a complicare la vita di chi l’ha soppiantata.

— Pensiamo di no — dice Nikki. — Non dimenticare che tutti gli animali che ti ho mostrato hanno sperimentato un trapianto effettuato attraverso linee di specie, anzi attraverso linee di genere. Un pavone non potrà mai trovarsi a suo agio nel corpo di un’aquila, e così una pecora nel corpo di un leone. Alla fine l’animale capisce come far funzionare il suo nuovo corpo, ma tenderà sempre a tornare ai vecchi schemi riflessi.

— E allora perché darvi da fare con dei passaggi transgenerici? Che senso ha, a parte mostrare quanto siete bravi?