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— Americano — dice Shadrach, anche se alle sue orecchie quell’etichetta ha un suono strano. Cos’altro dovrebbe rispondere, d’altronde? Mongolo?

— Americano? Ah! New York? Los Angeles? Una volta avevamo tanti americani qui. Prima della grande morte, no? Venivano con quell’aereo, era grande, troppo grande, sempre pieno, tutti quegli americani! Venivano per vedere gli animali, sa? Là fuori, fuori dalla città. Con le macchine fotografiche. Ora basta. Molto tempo, niente americani qui. Nessuno qui. — Ride. — Tempi diversi, ora. Brutti, questi tempi. Tranne che per gli animali. Tempi buoni, per gli animali. Vede, lì, di fianco alla strada? Iena. Proprio di fianco alla strada!

Sì, Shadrach la vede: una bestia dall’aspetto goffo, come un piccolo orso particolarmente sgraziato, accucciato sul bordo della strada. Il tassista gli dice che ora ci sono animali selvatici da tutte le parti, struzzi che passeggiano tranquilli per i viali principali di Nairobi, leoni e ghepardi che assalgono i contadini nei sobborghi, gazzelle che si spostano per il campus dell’Università in grossi branchi irrequieti. — Perché non c’è abbastanza gente in giro ormai — dice. — E la maggior parte sono comunque troppo malati. Non si caccia più molto. Settimana scorsa, grande elefante, ha sradicato l’acacia davanti al New Stanley Hotel. Acacia molto vecchia, molto famosa. Elefante molto grande. — Naturalmente. Con la popolazione mondiale ritornata a livelli da primo Ottocento, è normale che gli animali comincino a riprendersi il loro territorio. La Guerra Virale non li aveva sfiorati, neanche i primati più simili all’uomo: solo gli sventurati cromosomi umani potevano essere colpiti dalla decomposizione.

Procedendo verso la città scorge altri animali, due zebre bellissime, dei facoceri, un gruppo di antilopi dal dorso pesante e le zampe affusolate; degli gnu, lo informa il tassista. Shadrach è compiaciuto da questo risorgere della natura, ma il piacere è segnato dalla tristezza: se gli gnu pascolano ai margini delle grandi strade e l’erba cresce nelle vie della città, è perché l’età dell’uomo sta giungendo al termine, e per questo Shadrach non si sente pronto.

A dire il vero, per le strade di Nairobi non cresce molta erba, perlomeno non nel viale grande ed elegante che il taxi percorre per entrare in città. Da tutti gli angoli, cespugli fioriti si producono in eruzioni di bellezza. Dopo Ulan Bator, monocroma, Nairobi è una delizia visiva. Cascate di bougainvillee, rosse e porpora e arancioni, coprono i muri; una pianta grassa rampicante, cosparsa di fiori color lavanda, si stende come un tappeto sui salvagente in mezzo alla via; grossi alberi tentacolari di aloe sono appostati agli angoli delle strade come sentinelle; Shadrach riconosce ibischi e jacaranda, ma la maggior parte dei cespugli e degli alberi che riempiono le strade di queste allegre masse di colore gli sono sconosciuti. L’effetto è gaio e vivace, e sorprendentemente commovente: chi potrebbe sentirsi disperato, si chiede, in un mondo che offre una bellezza tanto intensa? Ma nel momento di gioia trascendente creata dagli splendidi fiori di questa città ben curata, arriva la negazione immediata; perché Shadrach si chiede anche come, lasciati liberi in questo mondo magnifico, ci siamo sforzati di farne un tale sfacelo. Ma nonostante tutto, questa città meravigliosa gli ispira più piacere che malinconia.

Shadrach Mordecai gira per Nairobi baciata dal sole e dai fiori, in un taxi vecchio e lento che lo porta al suo hotel, l’Hilton, un posto cavernoso e cadente dove è probabilmente l’unico ospite. Il personale dell’albergo lo tratta con straordinaria deferenza, come se fosse un principe in visita. E in un certo senso lo è, per questa gente. Sanno che vive nella capitale, e che viaggia con un passaporto del CRP; saranno portati a concludere che siede alla destra di Gengis Mao, che è poi la verità, nonostante Shadrach non faccia in alcun modo parte del governo. Ma perfino quelli che non hanno visto il suo passaporto dimostrano un senso di soggezione nei suoi confronti, qui. Interrompono il lavoro nei corridoi, e si voltano a guardarlo. Si scambiano bisbigli. Gesticolano, indicano. Shadrach è costretto a ricordarsi quel che tende spesso a dimenticare: che è un uomo di grande dignità e presenza, capace e sicuro di sé, dall’aspetto fisico imponente; un uomo che irradia un’aura che spinge gli altri a un atteggiamento deferente. È difficile, per chi lavora nell’ombra di Gengis Mao, ricordarsi di essere una persona a sé stante, non solo, una persona degna di nota, e non semplicemente un’estensione del Presidente. A Nairobi ricomincia a impararlo.

A passeggio per la città, mezz’ora dopo essersi registrato all’hotel, fa un’altra scoperta dell’ovvio: qui tutti sono neri. Quasi tutti, almeno. Nota qualche negoziante cinese, una coppia di indiani, alcuni bianchi di una certa età, ma si tratta di eccezioni, e danno nell’occhio proprio come dà nell’occhio lui a Ulan Bator. Perché il nero qui dovrebbe sorprenderlo? Questa è l’Africa; questo è il posto dove la gente è nera. Ed era la stessa cosa, a dire il vero, quand’era piccolo a Filadelfia: i bianchi si avventuravano raramente nella sua zona, e almeno durante la prima infanzia era stato facile per lui dare per scontato che il ghetto era il mondo, che il nero era la norma, che quelle creature avvistate di quando in quando, la faccia rosa e gli occhi azzurri e i capelli lisci, erano delle rarità bizzarre, come le giraffe nel suo libro illustrato. Ma questo non è un ghetto. È una nazione, un universo, dove i poliziotti e gli insegnanti e i delegati del Comitato e i pompieri sono neri, gli ingegneri alla centrale a fusione sono neri, i chirurghi del cervello e gli optometristi sono neri, neri da capo a piedi. Fratelli e sorelle per ogni dove, eppure è distante da loro, non sente affinità ma sorpresa di fronte all’universalità del nero. Forse vive in Mongolia da troppo tempo. Vivendo in quell’amalgama poliglotta e multirazziale che circonda Gengis Mao, ha cominciato a perdere in qualche misura la sua stessa identità razziale; e, vivendo tra milioni di mongoli, ha sviluppato una rappresentazione di sé ben definita in cui è necessariamente un estraneo, una stranezza, e questo lo fa sentire alienato perfino all’interno della sua stessa gente. Ammesso che queste persone, che parlano swahili, vivono in intimità con struzzi e ghepardi, hanno nelle vene sangue che non è mai stato diluito da geni di schiavisti, possano essere considerate la sua gente.

Scopre ancora un’altra ovvietà: che Nairobi non è solo viali bellissimi e aria pulita e ritemprante, non è solo cascate di bouganvillea e ibisco. Questo posto, per quanto adorabile a vedersi, rimane a pieno titolo parte del Reparto Traumatologia, e Shadrach non deve allontanarsi di molto dal giardino dell’hotel per incontrare le masse di sofferenti. Percorrono le strade allo sbando, a decine, e tutte le fasi della malattia sono rappresentate: alcuni sono semplicemente pallidi, privi di forze, hanno ancora sul volto i primi segni di sorpresa di fronte al decadimento del loro corpo; altri si trascinano piegati in due, smagriti, completamente confusi, in certi casi già colpiti da frequenti emorragie, intontiti dal dolore e cosparsi del sudore lucido della morte imminente. Quelli che si trovano nelle fasi più avanzate del male viaggiano in orbite solitarie, incespicando ciascuno per conto suo per le strade, sa dio perché, lottando con una determinazione incomprensibile per raggiungere una destinazione che sfugge sempre, prima che il crollo finale li vinca. Spesso le vittime della decomposizione si fermano e fissano Shadrach, come se sapessero che è immune e volessero da lui qualche sorta di dono di forza, un’infusione carismatica che li investa della stessa immunità, che guarisca le loro ferite e ricomponga il loro corpo. Ma nel loro sguardo non c’è rimprovero, né invidia: è lo sguardo calmo, fisso, equanime che ci si vede indirizzare talvolta dalle bestie al pascolo, impenetrabile ma non minaccioso, privo di qualunque allusione a un mattatoio di cui ci considerino responsabili.