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A tutta prima, Shadrach è incapace di sostenere quegli sguardi fissi privi di espressione. Tanto tempo fa gli è stato insegnato che un medico dev’essere in grado di guardare un paziente senza sentirsi in colpa per la propria salute, ma questo è un caso diverso. Questi non sono suoi pazienti, e lui è in buona salute soltanto perché i suoi contatti politici gli garantiscono l’accesso a una protezione che loro non possono avere. Prova curiosità di fronte alla decomposizione organica: è il grande fenomeno medico dell’epoca, la Morte Nera del suo tempo, la piaga più terribile della storia, e Shadrach ne studia gli effetti dovunque li incontri; eppure né la sua curiosità, né il suo distacco di medico, sono sufficienti a permettergli di guardare questa gente negli occhi. Si limita a lanciare loro rapide occhiate di sottecchi, finché non si rende conto che il suo senso di colpa è irrilevante. A questi relitti umani non importa se lui li guarda. Non importa loro più di niente. Stanno morendo, qui, pubblicamente; la pancia in fiamme, la mente annebbiata; che può importare se uno sconosciuto li fissa? Lo guardano; lui guarda loro. Delle barriere invisibili lo proteggono da loro.

Poi, nelle barriere si apre una breccia. Shadrach distoglie gli occhi per un momento dalla processione dei dannati per ispezionare la vetrina di un negozio di curiosità; mentre osserva le grottesche incisioni in legno, i tamburi di pelle di zebra, i portacenere ricavati da zampe d’elefante, le lance e gli scudi masai, ogni sorta di artefatti indigeni prodotti in serie per turisti che non vengono più, qualcuno gli colpisce bruscamente il gomito. Fa un volteggio, istantaneamente in guardia. L’unica persona vicino a lui è un ometto appassito, terreo, coperto di stracci, i capelli bianchi, tutto ossa; si muove avanti e indietro davanti a Shadrach in un semicerchio erratico, facendo degli strani versi secchi nella profondità della gola.

Un caso terminale. Coperto di pustole attorno agli occhi spenti, ha la pancia gonfia. La malattia smangia lentamente il tessuto epiteliale, ulcerando indiscriminatamente tutta la carne che incontra; i fortunati sono quelli i cui organi si perforano rapidamente, ma pochi hanno questa fortuna. Sono passati diciotto anni da quando la Guerra Virale scatenò contro l’umanità la decomposizione organica; Shadrach ha letto che molti di coloro che vennero infettati quando tutto cominciò stanno ancora aspettando che arrivi la fine. L’uomo davanti a Shadrach ha l’aspetto di uno di quei casi quasi ventennali, ma non gli può mancare più molto. Tutti i meccanismi interni devono essere avvizziti e corrosi; non dev’essere altro che un ammasso di buchi tenuti insieme da sottili filamenti di tessuto vivente, e la prossima erosione, dovunque si verifichi, sarà certamente fatale.

Pare cercare l’attenzione di Shadrach, ma è incapace di fermarsi nel posto giusto. Come un robot dalle giunture arrugginite, continua a muoversi a scatti, si agita davanti a Shadrach con movimenti rapidi e convulsi, fermandosi, facendo cigolare i meccanismi dentro di sé, girando su se stesso e facendo sventolare le braccia senza controllo, allontanandosi e ritornando per un nuovo tentativo. Alla fine, con un ultimo sforzo disperato, riesce ad aggrapparsi all’avambraccio di Shadrach e trova una stabilità in questo modo, in piedi vicino a lui, appoggiato a lui, dondolandosi lentamente sul posto.

Shadrach non cerca di sfuggirgli. Se per questa creatura ferita non può far altro che fornire un sostegno, farà almeno questo.

Con voce terribilmente gracchiante, apocalittica, una specie di grido sussurrato, il vecchio gli dice qualcosa che parrebbe essere altamente importante.

— Mi dispiace — mormora Shadrach — non riesco a sentirla.

Il vecchio si fa più vicino ancora, sforzandosi di accostare la faccia a quella di Shadrach, in alto, e ripete le sue parole in tono ancora più concitato.

— Ma io non parlo swahili — dice Shadrach in tono addolorato. — È swahili questo? Non capisco.

Il vecchio cerca una parola, le labbra avvizzite si muovono, la gola pulsa, il volto è teso per la concentrazione. L’uomo emette un odore dolce, secco, l’odore dei gigli appassiti. Una lesione a una guancia pare attraversare completamente la carne, da dentro a fuori; potrebbe probabilmente infilarci la punta della lingua.

— Morto — dice infine il vecchio, in inglese, pronunciando la parola come se fosse un peso mostruoso che lascia cadere ai piedi di Shadrach.

— Morto?

— Morto. Tu… fare… me… morto…

Le parole cadono una dopo l’altra dalla gola devastata senza espressione, senza inflessione, senza un tono particolare. Tu. Fare. Me. Morto. Mi sta accusando di avergli dato la malattia, si chiede Shadrach, o sta chiedendo l’eutanasia?

— Morto! Tu! Fare! Me! Morto! — Poi ancora swahili. Poi dei colpi di tosse, sofferti, catarrosi. E poi lacrime, incredibilmente copiose, che scendono a fiumi rigando le guance polverose. La mano che trattiene l’avambraccio di Shadrach si serra con una forza improvvisa, sfregando osso contro osso e strappando al medico un grido di dolore. Poi la pressione inattesa svanisce: il vecchio se ne sta da parte per un momento, barcollando; gli sfugge un suono aspro, un inconfondibile rumore di morte, e la vita lo abbandona in modo così istantaneo e completo che Shadrach ha una visione semiallucinatoria, un teschio e le ossa dentro agli abiti lacerati dell’uomo. Mentre il corpo sta cadendo, Shadrach lo prende e lo poggia dolcemente al suolo. Non pesa più di quaranta chili, si direbbe.

E ora? Deve avvertire le autorità? Quali autorità? Shadrach si guarda attorno in cerca di un Citpol, ma la strada, affollata fino a due minuti prima, è misteriosamente vuota. Shadrach si sente responsabile del corpo. Non può semplicemente abbandonarlo lì dov’è crollato. Entra nel negozio di curiosità in cerca di un telefono.

Il proprietario è un indiano dall’aspetto sano, mellifluo, sulla sessantina, con grandi occhi liquidi e folti capelli scuri spolverati d’argento. Indossa un abito da businessman di taglio antiquato e ha l’aria vivace e prosperosa. Ha assistito evidentemente al piccolo dramma di un attimo fa, perché ora si sporge in avanti, con le palme delle mani premute l’una contro l’altra e le labbra serrate in una espressione affettata del tipo “santo cielo”.

— È disdicevole! — dichiara. — Importunarla a questo modo! Non hanno pudore, non hanno nessun senso di…

— Non mi ha importunato — dice Shadrach tranquillo. — Quell’uomo stava morendo. Non aveva tempo di stare a pensare al pudore.

— Ma in ogni caso… Infastidire uno sconosciuto, un visitatore della nostra…

Shadrach scuote la testa. — Lasciamo perdere. Qualunque cosa volesse da me, non potevo dargliela, e ora è morto. Mi sarebbe piaciuto essere in grado di aiutarlo. Sono un medico — rivela, sperando che la confidenza sortirà l’effetto giusto.

E così avviene. — Ah! — esclama il negoziante. — Lei allora queste cose le capisce. — La sensibilità di un medico non è come quella di un essere ordinario. Il proprietario del negozio non si sente più imbarazzato che uno dei suoi trasandati compatrioti abbia avuto il cattivo gusto di infliggere la propria morte a un turista.

— Cosa dovremmo fare con il cadavere? — chiede Shadrach.

— Verranno i Citpol. Le voci girano.

— Stavo pensando che potremmo telefonare a qualcuno.

Una scrollata di spalle. — Verranno i Citpol. Non è importante. La malattia non è contagiosa, mi dicono. Cioè, siamo tutti contagiati dai tempi della Guerra, ma non abbiamo niente da temere da parte di quelli che mostrano effettivamente dei sintomi. O dai loro corpi. Non è vero?

— È vero, sì — dice Shadrach. A disagio, lancia un’occhiata all’esile corpo senza vita che se ne sta sul marciapiede fuori dal negozio, come una coperta abbandonata. — Forse però sarebbe bene chiamare qualcuno.