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8 dicembre 2001

Dunque non soffrirò la decomposizione, dopotutto. Ho preso oggi la mia prima dose del farmaco di Roncevic. Dicono che se dai prelievi non risulta traccia del virus in stato attivo prima della prima iniezione, sei al sicuro, ma che l’antidoto non può fare niente per aiutarti una volta cominciata la fase letale. I miei prelievi erano puliti: non corro rìschi. Non ho mai dubitato che mi sarei salvato. Non era scritto che morissi nella Guerra Virale: dovevo cavarmela, sopravvivere all’olocausto generale e restare in vita fino a questo momento. Che è il mio momento, finalmente giunto. “Lei vivrà per cent’anni”, mi ha detto Roncevic stamattina. Intende dire altri cento anni? O cento in tutto? In quel caso me ne resterebbero solo venticinque circa. Troppo pochi, troppo pochi.

Comunque vadano le cose, vivrò più a lungo del povero Roncevic. È già stato colpito dalla decomposizione, che gli arde nel ventre. Come si è dato da fare per mettere a punto il farmaco, come sperava di salvarsi! Ma non ha fatto in tempo. La malattia ha raggiunto lo stadio attivo troppo presto, e Roncevic se ne va. Lui se ne va, io rimango: ha recitato il ruolo che gli era stato affidato nel dramma della vita e se ne va dal palco. Mentre io continuo a vivere, magari altri cent’anni. La mia vitalità fisica è sempre stata straordinaria. Non c’è dubbio che le mie energie vitali siano di ordine superiore: eccomi qui, settanta suonati, il vigore di un giovane. Resisto alla malattia, respingo la stanchezza. Dicono che il Presidente Mao, passati i settant’anni, abbia nuotato per otto miglia nello Yang-Tze in un’ora e cinque minuti. A me il nuoto non interessa; ma so che se fosse necessario, potrei nuotare dieci miglia in quei sessantacinque minuti. Potrei nuotarne venti.

Gerusalemme è più fredda di come se l’aspettava Shadrach, fredda quasi come Ulan Bator in questa mattinata di primavera avanzata; e più piccola, anche, sorprendentemente compatta per un posto dov’è stata fatta tanta storia. Shadrach si stabilisce all’International, un vecchio hotel della metà del ventesimo secolo costruito in una posizione incantevole in cima al Monte degli Ulivi. Dal balcone gode di una vista superba sulla città vecchia con le sue mura. Guardandola si sente preso da un’ammirazione riverente e dall’eccitazione. Quelle due grandi cupole che risplendono laggiù… la cartina gli dice che quella più grande, d’oro, è la cupola della Moschea della Rocca, eretta sul sito del Tempio di Salomone, e quella d’argento è la Moschea di Aqsa; e quella formidabile muraglia fortificata, e le antiche torri di pietra, e il labirinto di stradine che s’intrecciano, tutto gli parla della longevità della specie umana, delle maree lente e regolari della storia, dell’arrivo e della dipartita di monarchi e imperi. La città di Abramo e di Isacco, di David e Salomone, la città che Nabucodonosor distrusse e Neemia ricostruì; la città dei Maccabei, di Erode, la città in cui Gesù soffrì e morì e risorse, la città dove Maometto, in una visione, ascese in cielo; la città dei Crociati, la città della leggenda, della fantasia, dei pellegrinaggi, delle conquiste, degli eventi che si raccolgono strato sopra strato, strati più intricati di quelli di Troia; quella città di bassi edifici di pietra bruna appena al di là della valle gli spiega che quelle ore d’apocalisse vengono seguite dalla rinascita e dalla ricostruzione, che nessun disastro è eterno. L’umore che si è impossessato di lui quand’era con Bhishma Das non l’ha lasciato con la partenza dall’Africa. Gerusalemme è davvero una città di luce, una città di gioia. Shadrach ricorda le sue prozie Ellie e Hattie, che cantavano inni battendo le mani: 

Gerusalemme, casa mia lieta Quando ritornerò? Quando finiranno le mie pene? Quando vedrò la gioia?

 …e improvvisamente è ridiventato un ragazzo di sei, sette anni, con i calzoni blu stretti e una camicia bianca inamidata, in piedi tra queste due nere colossali, vestite dei loro abiti della domenica; e canta con loro, batte le mani, mormorando o inventandosi le parole dove non sa quelle giuste, oh, sì, Gerusalemme, Gerusalemme, guidami fino a Gerusalemme, Signore! Quella terra promessa, tanto tempo fa, lontano lontano, quella città di profeti e di re, Gerusalemme l’aurea, benedetta con latte e miele; ed eccolo qui, Shadrach, alle sue porte, trepidante e ansioso di scoprirla. Chiama un taxi.

Quando entra finalmente nella città, però, passando per la Porta di Santo Stefano e procedendo sulla Via Dolorosa, queste fantasie romantiche cominciano a evaporare, e Shadrach si chiede come ha mai potuto blaterare così allegramente, evocando a Das i tempi felici a venire. Sì, Gerusalemme è innegabilmente pittoresca, anche se chiamare un luogo “pittoresco” significa quasi insultarlo; con le stradine ripide e strette e le vecchie case solide e robuste, le sue tende affollate dove si vendono vasi e pentolame, pesce e mele, dolci e agnelli macellati, i suoi odori di spezie esotiche, i suoi uomini dal volto di falco e le vesti beduine… Ma c’è un vento freddo che soffia per i vicoli sporchi, e tutti, bambini, mendicanti, mercanti, compratori, facchini, operai, tutti hanno quello sguardo di disperazione spenta, quell’espressione, occhi vuoti e anima spezzata, che non è il segno della capacità di sopravvivere, bensì della previsione della sconfitta e della resa: arrivano gli Assiri, arrivano i Romani, arrivano i Persiani, arrivano i Saraceni, arrivano i Turchi, arriva la decomposizione organica, e noi saremo schiacciati, saremo annientati per sempre.

È impossibile sfuggire al ventunesimo secolo, anche all’interno di queste mura medievali. Salendo verso il Golgota, Shadrach vede, affisso per ogni dove, l’abituale manifesto che piange la morte di Mangu, il volto dolce del giovane su uno sfondo giallo vivo. La presenza di Mangu non era assente da Nairobi, naturalmente, ma in quella città spaziosa e ariosa i manifesti erano meno oppressivi, facilmente oscurati dai colori della bouganvillea e della jacaranda. Qui, le pesanti mura di pietra trasudano vistose immagini di Mangu sopra a viuzze larghe a malapena per tre persone affiancate, chiazze gialle a cui non si può sfuggire, e vedendole si avverte la mano malvagia di Gengis Mao coprire la città, imporle un lutto poco sentito per il viceré scomparso. Lo stesso Gengis Mao è presente in modo più immediato; i suoi tratti induriti occhieggiano, familiari e sinistri, da stendardi gonfiati dal vento che adornano tutti gli incroci delle strade principali. I locali prendono queste immagini straniere con la stessa casualità con cui, non c’è dubbio, hanno preso un tempo i manifesti e le bandiere di Nabucodonosor, Tolomeo, Tito, Cosroe, Saladino, Solimano il Magnifico, e tutti gli altri intrusi destinati a scomparire; ma per Shadrach queste facce mongole riprodotte risuonano nella coscienza come altrettante campane plumbee che contano le ore che gli restano.

E poi, anche la decomposizione organica. Non è una presenza vistosa come a Nairobi, forse, perché lì i casi terminali vagavano soli nei viali ampi, inciampando e barcollando per zone private di spazio libero. La vecchia Gerusalemme è troppo affollata perché si vedano scene del genere. Ma non scarseggiano le vittime, che tremano e sudano e brancolano per la Via Dolorosa. Di tanto in tanto uno si arresta, si appoggia contro un muro, insinua le dita tra le pietre per sostenersi. Le Stazioni della Croce sono indicate da lapidi nelle mura: qui Gesù ricevette la croce, qui cadde per la prima volta, qui incontrò Sua Madre, e così via. E qui, su per la Via Dolorosa, vanno i morenti, persi nelle loro crocefissioni personali. Come a Nairobi, fissano il vuoto, senza dare l’impressione di vedere alcunché. Ma alcuni tendono le mani verso Shadrach, come se implorassero la sua benedizione. Questa è una città dove i miracoli non sono stati infrequenti, e lo sconosciuto nero è un uomo di grande dignità e presenza: chissà, forse un nuovo Salvatore percorre queste strade? Ma Shadrach non ha miracoli da offrire, nessuno. Non può niente. È un uomo morto, esattamente come loro, anche se cammina ancora. Come loro.