— Meshach?
— Sì. È un nome biblico, dal Libro di Daniele. Era uno dei tre ebrei che sfidarono Nabucodonosor quando il re ordinò loro di…
— Lo so — esclama Shadrach. — Lo so! — Sta ridendo. Ribolle di gioia. È un momento delizioso. — Non c’è bisogno che mi racconti tutta la storia. Io sono Shadrach!
— Prego?
— Shadrach. Shadrach Mordecai. È il mio nome.
— Il suo nome — dice Meshach Yakov. Ride anche lui. — Shadrach. Shadrach Mordecai. È un bel nome. Sarebbe un bel nome israeliano. Con un nome del genere, non è ebreo?
— I geni sbagliati, immagino. Ma suppongo che se mi convenissi non dovrei preoccuparmi di cambiare nome.
— No. No. Un bel nome ebraico. Shalom, Shadrach!
— Shalom, Meshach!
Ridono insieme. Sembra una scena classica da vaudeville, pensa Shadrach. Quel Citpol che occhieggia là in fondo… è lui Abednego? Sono davanti al Muro ora, e le risate si spengono. Gli enormi blocchi di pietra consumata dal tempo sembrano incredibilmente antichi, vecchi come le Piramidi, vecchi come l’Arca. Meshach Yakov chiude gli occhi, si sporge in avanti, poggia la fronte contro il Muro come per salutarlo. Poi guarda Shadrach.
— Come posso pregare? — chiede Shadrach.
— Come? Come? Prega in qualunque modo hai voglia di pregare! Parla col Signore! Digli delle cose. Chiedigli delle cose. Mi tocca spiegare a un uomo cresciuto come si prega? Cosa posso dirti? Solo questo: è meglio rendere grazie che invocare favori. Se puoi. Se puoi.
Shadrach annuisce. Si volge verso il Muro. La sua mente è sgombra. Il suo animo è sgombro. Lancia un’occhiata a Meshach Yakov. L’israeliano, gli occhi chiusi, sta ondeggiando lentamente col corpo avanti e indietro, mormorando fra sé in una lingua che Shadrach suppone essere ebraico. Alle labbra di Shadrach non viene nessuna preghiera. Riesce solo a pensare ai bambini inselvatichiti, alla decomposizione organica, alle facce vuote e disperate lungo la Via Dolorosa, ai manifesti di Mangu e Gengis Mao. Questo suo viaggio è stato un fallimento. Non ha imparato niente, non ha concluso niente. A questo punto potrebbe anche tornare a Ulan Bator domani, e affrontare quel che c’è da affrontare. Ma nel momento in cui formula questi pensieri, li respinge immediatamente. E quell’onda improvvisa di ottimismo che l’aveva colto mentre beveva tè con Bhishma Das? E quel momento di gioia, quella sensazione di calore e amicizia che ha provato sentendo il nome di Meshach per la prima volta? Questi due vecchi, l’indù, l’ebreo, tutti e due così forti d’animo, così pazienti e saldi sotto il peso della catastrofe mondiale… della loro forza non si è trasmesso niente a Shadrach?
Resta lì fermo per un momento prolungato, ascoltando il silenzio dentro al suo corpo, l’assenza di segnali da Gengis Mao, e decide che non è ancora tempo di tornare a Ulan Bator. Andrà avanti. Porterà a termine il suo giro.
Sottovoce, troppo imbarazzato per lasciarsi udire da Meshach, dice: — Grazie, o Signore, per aver creato questo mondo e per avermi permesso di viverci fino a ora. — Meglio rendere grazie che invocare favori. Ma in ogni caso, invocare favori non è proibito. Tra sé, Shadrach aggiunge: — E permettimi di rimanerci ancora un po’, Signore. E mostrami come posso renderlo un po’ più simile al luogo che Tu volevi che fosse. — La preghiera suona stupida alle orecchie di Shadrach, sdolcinata, ingenua. Ma allo stesso tempo non da disprezzare. Allo stesso tempo non da disprezzare. Se gli fosse concesso di rivivere quel momento, non cambierebbe quella preghiera, anche se non gli piacerebbe neanche ammettere davanti a qualcuno di averla pronunciata.
Quando hanno finito con ciò per cui sono venuti al Muro, Meshach Yakov invita Shadrach a cena; e Shadrach, che nel frattempo si è convinto di aver fatto male a rifiutare l’invito di Bhishma Das, accetta. Yakov abita nella parte moderna di Gerusalemme, molto a ovest della città vecchia, oltre gli edifici del parlamento e il campus universitario, in un grattacielo che sorge sulla cima di un’alta collina spoglia. L’edificio, parte di un complesso che ne comprende una ventina, ha quell’aspetto patinato e vitreo che godeva di un certo favore verso la fine del ventesimo secolo, ma i segni di decadenza ne marcano ogni angolo. Le finestre sono sporche, talvolta addirittura rotte, le porte scardinate, le ringhiere ai balconi sono corrose dalla ruggine, l’ascensore cigola e geme. Più di metà degli appartamenti sono sfitti, gli dice Yakov. Con il calo della popolazione e il deteriorarsi della qualità dei servizi, la gente ha cominciato ad abbandonare questi sobborghi un tempo ambiti e vive più vicino al centro della città. Ma lui è qui da quarant’anni, dice orgoglioso, e intende restare per almeno altri quaranta.
L’appartamento vero e proprio di Yakov è piccolo, ben curato, arredato frugalmente e con buon gusto, in stile un po’ antiquato. — Mia sorella Rebekah — dice. — I miei nipoti, Joseph, Leah. — Dice loro come si chiama Shadrach, e ridono tutti di cuore della coincidenza, dello stretto collegamento biblico. La sorella è sulla settantina, Joseph attorno ai diciotto, Leah ha dodici o tredici anni. Alle pareti ci sono delle fotografie incorniciate di nero: la moglie di Yakov, si può immaginare, e tre figli adulti, tutti probabilmente vittime della decomposizione. Yakov non dice niente, Shadrach non chiede niente.
— Lei è ebreo? — chiede Leah.
Shadrach sorride, scuote la testa.
— Ci sono ebrei neri — dice la ragazza. — Lo so. Ci sono perfino ebrei cinesi.
— Gengis Mao è ebreo — dice Joseph, e scoppia a ridere di gusto. Nessun altro ride con lui. Meshach Yakov lo guarda male; la sorella di Yakov sembra scioccata, Leah imbarazzata. Shadrach si scopre scosso dall’intrusione improvvisa di quel nome estraneo nella casa di questa famiglia che vive tranquilla per conto suo.
Yakov dice serio al ragazzo: — Non dire sciocchezze.
— Non intendevo dire niente — protesta Joseph.
— Allora risparmia il fiato — ribatte Yakov rapido. A Shadrach dice: — Non siamo dei grandi ammiratori del Presidente, qui. Ma preferirei non discutere di queste cose. Mi scuso per le stupidaggini del ragazzo.
— Non c’è nessun problema — dice Shadrach. Leah dice: — Come mai ha un nome ebraico?
— La mia gente prendeva spesso nomi dalla Bibbia — le dice Shadrach. — Il padre di mio padre era un religioso, uno studioso di teologia. Lo ha suggerito lui. Un mio zio si chiama Absalom. Si chiamava per la verità. E dei cugini, Solomon e Saul.
— Ma il cognome — insiste la ragazza. — Intendevo dire quello. È ebraico anche quello. Una volta c’era un famoso rabbino chiamato Mordecai, in Germania, tanto tempo fa. Ce ne hanno parlato a scuola. I neri scelgono anche i cognomi?
— Ci sono stati dati, dai nostri padroni. La mia famiglia un tempo dev’essere appartenuta a qualcuno che si chiamava Mordecai.
— Appartenuta?
— Quando erano schiavi — le sussurra severo Joseph.
— Anche voi siete stati schiavi? — dice la ragazza. — Non lo sapevo. Noi siamo stati schiavi in Egitto, lo sa. Migliaia di anni fa.
Shadrach sorride. — Noi siamo stati schiavi in America. Più recentemente.
— E il vostro padrone era un ebreo? Non posso credere che un ebreo terrebbe degli schiavi, no!
Shadrach vorrebbe spiegarle che lo schiavista Mordecai, se mai è esistito e se è lui che ha dato quel nome ai suoi neri, non era necessariamente un ebreo, ma avrebbe anche potuto esserlo, perché perfino degli ebrei non si erano fatti scrupolo di possedere schiavi ai tempi delle piantagioni; ma la discussione sta mettendo a disagio Meshach Yakov, si direbbe, e l’uomo cambia argomento in modo tanto brusco da lasciare i giovani a bocca aperta, chiedendo alla sorella se la cena sarà pronta tra molto.