— Un quarto d’ora — risponde lei, dirigendosi verso la cucina.
Come ubbidendo a un ordine inespresso di lasciare in pace l’ospite, Joseph e Leah si ritirano; si siedono su un divano e iniziano una conversazione elaborata e goffa a proposito di avvenimenti scolastici; a quanto pare è stato proclamato un giorno di vacanza in tutto il mondo in occasione dei funerali di Mangu, e Joseph, che va all’università, si perderà una visita di studio al Mar Morto ed è seccato per questo. Leah cita una frase del capo del CRP di Gerusalemme sull’importanza dell’omaggio da tributare al viceré caduto, causando uno strillo di derisione da Rebekah, in cucina, e un commento brusco sull’intelligenza e sulla sanità di mente del funzionario; presto le cose degenerano in una discussione rumorosa e incomprensibile su questioni politiche locali, che coinvolge tutti e quattro gli Yakov in una fiera gara di urla bilingui. All’inizio Meshach cerca di spiegare a Shadrach alcuni elementi del cast e dello sfondo della storia, ma col procedere della disputa diventa troppo preso per proseguire il suo commento. Shadrach, confuso ma divertito, osserva la baruffa di questa gente colta e appassionata fino a quando l’arrivo della cena non causa l’interruzione improvvisa del dibattito. Non ha idea di cosa riguardasse la battaglia (c’entra in qualche modo la sostituzione di un arabo cristiano con un musulmano in consiglio comunale, gli sembra di capire), ma lo rincuora vedere una tale prova di energia e impegno. A Ulan Bator, infestata senza risparmio da microfoni e occhi-spia, non gli è mai capitato di essere testimone di simili scontri di opinioni; ma forse gli occhi-spia non c’entrano, forse è solo perché ha vissuto al di fuori di una famiglia nucleare per così tanto tempo da dimenticarsi come sia fatta la conversazione vera e propria.
All’inizio della cena alcuni interrogativi lo preoccupano: dovrebbe indossare la kippà? Quali altri usi che non conosce ci saranno? Ma non sorgono problemi. Né Meshach né suo nipote hanno il capo coperto; non si prega prima di mangiare, c’è solo un momento di ringraziamento silenzioso osservato dai due vecchi; il cibo è gustoso e abbondante, e Shadrach non nota nessuna abitudine alimentare particolare rispettata al tavolo degli Yakov. Dopo il pasto Joseph e Leah si ritirano nelle loro stanze a studiare e Shadrach, riscaldato dal vino rosso israeliano e dal forte brandy israeliano che ha bevuto, si mette a esaminare con il vecchio Yakov delle carte dei dintorni; durante la cena hanno deciso di fare un giro insieme il mattino dopo. Vedranno la città vecchia, naturalmente, le sue torri e le chiese e i mercati, e la tomba attribuita ad Absalom nella vicina valle di Kibron, e la tomba di Re David sul Monte di Sion, e il museo archeologico, e il museo nazionale che ospita i Rotoli del Mar Morto, e…
— Aspetta — dice Shadrach. — Tutto questo in un giorno?
— Ce ne metteremo due, allora — dice Meshach.
— Lo stesso. Possiamo davvero fare un giro così lungo, così velocemente?
— Perché no? Mi sembri sufficientemente in salute. Penso che riuscirai a tenermi dietro. — E il vecchio ride.
22
A Istanbul, pochi giorni dopo, non ha una guida. Vaga per i tanti livelli di quella città intricata da solo, vinto dalla difficoltà degli spostamenti da un luogo all’altro, e gli piacerebbe che un Meshach Yakov lo scoprisse qui, o un Bhishma Das. Ma non incontra nessuno. La piantina che gli hanno dato all’albergo non è d’aiuto alcuno, perché le targhe con i nomi delle vie sono rare, e ogni volta che Shadrach svolta da un viale principale si perde immediatamente in un labirinto di vicoletti senza nome. Dei taxi ci sono, ma i tassisti parlano a quanto pare solo turco: il turismo è morto con la Guerra Virale. Riescono a seguire le indicazioni che non richiedono una spiegazione, “Aghia Sofia”, “Topkapi”; ma quando Shadrach vuole recarsi agli antichi bastioni bizantini all’estremità della città, non riesce a spiegarsi con nessuno dei tassisti, e deve infine accontentarsi di essere condotto alla moschea Kariya, in periferia, da dove raggiungerà il muro non distante a piedi, tirando a indovinare la direzione.
Istanbul è polverosa, sudicia, arcaica, esotica, e irritante. Shadrach è affascinato dalla miscela di stili architettonici, gli opulenti palazzi ottomani e le gloriose moschee dai tanti minareti, le case in legno settecentesche e gli ampi vialoni del ventesimo secolo e i frammenti sbrecciati della vecchia Costantinopoli, che spuntano dalla terra come denti spezzati, pezzetti di acquedotti, cisterne, basiliche, stadi. Ma la città è troppo caotica per lui. Lo deprime e lo repelle nonostante il fascino potente delle sua storia ricca ed elaborata. Anche adesso, vive qui più di un milione di persone, e Shadrach trova difficile affrontare una simile densità di umanità. In mostra per le strade ci sono le solite agghiaccianti tragedie della decomposizione organica, e un numero straordinario di bambini inselvatichiti, alcuni di non più di tre o quattro anni, appaiono a gruppi a ogni angolo come dei vagabondi disperati. E per ogni dove ci sono Citpol, che si spostano a coppie con circospezione. Stanno sorvegliando lui, sospetta Shadrach. Semplice paranoia? Crede di no. Pensa che Gengis Mao, pentito di aver permesso al suo medico di vagare per il mondo, lo stia tenendo sotto sorveglianza: così che al primo capriccio del Khan sarà possibile riportarlo a casa. Shadrach non si aspettava di scoprirsi in grado di svanire del tutto: anzi, il ritorno a Ulan Bator è un punto sicuramente centrale del piano di azione che comincia a prendergli forma nella testa, anche se ancora non sa quando verrà il momento giusto per tornare a casa; ma non gli piace l’idea di essere spiato. Dopo due giorni a Istanbul, un giro un po’ striminzito delle attrazioni turistiche standard, prende un volo per Roma all’improvviso. Passa lì una settimana, stabilendo il proprio quartier generale in un vecchio hotel, accogliente e lussuoso, a pochi isolati dalle Terme di Diocleziano. Anche Roma ha una popolazione densa, e il ritmo urbano è frenetico, ma per una ragione o per l’altra qui rimangono meno cicatrici della Guerra Virale e di quel dopoguerra da incubo, e Shadrach comincia a rilassarsi, a trovarsi a suo agio in un tranquillo ritmo di vita mediterraneo: passeggia per le vie splendide, si gode l’aperitivo nei bar con i tavolini all’aperto, si ingozza di pasta innaffiata con vino bianco novello nelle trattorie più nascoste, e tutti i traumi del Reparto Traumatologia diventano insignificanti. Questa è davvero la Città Eterna, capace di assorbire tutti gli attacchi più aspri da parte del tempo senza perdere niente della sua elasticità. Shadrach si reca naturalmente a vedere i monumenti imperiali, l’Arco di Tito che commemora il saccheggio di Gerusalemme da parte dei Romani, i templi e i palazzi del Campidoglio e del Palatino, il magnifico disordine del Foro, le rovine del Colosseo infestate da un passato sanguinoso. Visita San Pietro e, guardandosi intorno in Vaticano, ripensa all’offerta derisoria, corrosiva che Gengis Mao gli aveva fatto proponendogli di diventare papa. Visita la Cappella Sistina, la collezione etrusca a Villa Giulia, la galleria Borghese, e una decina delle più belle chiese barocche. Nell’inseguimento delle infinite antichità di Roma le energie paiono crescergli anziché esaurirsi. Stranamente, scopre di provare le sensazioni più forti non dinanzi ai famosi monumenti classici, ma ai vecchi casamenti grigi, alti e sottili, di Trastevere e della zona del ghetto ebraico. Sono gli stessi edifici dei tempi di Cesare, un tempo abitazioni di lusso, ora catapecchie? È possibile che siano ancora abitati, dopo duemila anni? E perché no? Gli antichi Romani sapevano costruire case di sei piani, o anche di più, e costruivano in solida pietra. E non sarebbe stato difficile, nonostante i saccheggi e gli incendi e le rivoluzioni, mantenere intatti questi palazzi, ricostruire, ripassare l’intonaco, rappezzare il vecchio e farlo ridiventare nuovo, riattare e restaurare costantemente. Queste torri grigie, dunque, potrebbero avere ospitato un tempo i sudditi di Tiberio e di Caligola, e a Shadrach deriva un piccolo brivido piacevole dal pensiero che siano stati occupati costantemente attraverso i secoli. Ma a ripensarci, probabilmente non è andata così; niente, conclude, può durare così a lungo se viene usato quotidianamente. Questi sono più probabilmente edifici del dodicesimo secolo, del quattordicesimo, perfino del diciassettesimo. Piuttosto vecchi, ma non veramente antichi. Se non nel senso che qualunque cosa preceda l’ascesa di Gengis Mao, qualunque cosa sia sopravvissuta al crollo del mondo precedente, a quell’epoca antidiluviana, è antica.