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San Francisco è una città ideale per passeggiare. La scala del posto è modesta e a misura d’essere umano, ci si può spostare dunque da una quartiere all’altro, dalle ville di Pacific Heights al soleggiato ambiente finto-mediterraneo della Marina, da Russian Hill al Wharf, dalla Mission alla Haight, in un solo breve balzo, sullo sfondo di un tessuto urbano in costante cambiamento ma sempre gradevole. Né il vento, né la nebbia, né le colline troppo ripide sono un ostacolo serio in un ambiente così piacevole. E la città è viva. Ci sono negozi, ristoranti, caffè; le zone vicine al mare offrono una mezza dozzina di grandi cappelle di carpenteria, gestite da diverse sette in competizione tra loro, un tempio del sogno di morte, un ritrovo di transtemporalisti; la gente per le strade offre uno spettacolo di buona salute e buon umore, e anche se Shadrach sa che si deve trattare di un’illusione, è un’illusione convincente. L’unica cosa che non va a San Francisco è l’abbondanza di Citpol.

Ci sono più poliziotti di quanti Shadrach non abbia mai visto tutti in una volta, ce n’è più che nella stessa Ulan Bator. È come se a San Francisco un abitante su nove si fosse arruolato nella Brigata Civica di Pace. Forse è solo un’illusione della sua mente turbata, o forse la vitalità inconsueta di questa città esige una dose analogamente inconsueta di controllo poliziesco: in un modo o nell’altro, ci sono uniformi grigie e blu dappertutto, dappertutto, di solito a coppie ma non troppo raramente a gruppetti di tre, quattro, cinque. I più hanno quell’aspetto meccanico, insettoide, che pare caratteristico di quelli come loro, che fa sospettare a Shadrach che i Citpol non siano esseri nati, cresciuti e addestrati, ma piuttosto prodotti con uno stampo in qualche fabbrica mostruosa nel profondo Caucaso. E lo sorvegliano tutti. Sorvegliano, sorvegliano, sorvegliano… non può essere semplice paranoia. È possibile? Questi occhi spenti, grigi, che vigilano, duri, stupidi, impegnati a studiare da tutte le angolature Shadrach che cammina per la città? Perché lo guardano con tanta attenzione? Cosa vogliono sapere?

Mi arresteranno tra poco, si dice Shadrach.

È sicuro di essere stato sotto sorveglianza fin dalla sua partenza. Non ha dubbi che Avogadro stia ricevendo informazioni sui suoi movimenti e stia compilando rapporti giornalieri per Gengis Mao; e poi (è la sua stessa tensione sempre più forte che gli fa pensare così, o è la tensione di Gengis Mao?) l’intensità della sorveglianza pare essere aumentata, da Nairobi a Gerusalemme, da Gerusalemme a Istanbul, da Istanbul a Roma, prima uno o due Citpol di passaggio che gli gettano un’occhiata distratta, poi un’attenzione più esplicita, poi squadre intere che lo seguono di qua e di là, occhieggiano, fissano, confabulano, studiano i suoi movimenti; fino a che, forse a San Francisco, forse non prima di quando avrà raggiunto Pechino, riceveranno gli ordini dalla capitale ed entreranno in azione, decine di poliziotti sui tetti, sulle soglie delle case, agli angoli delle strade: «Va bene, Mordecai, vieni qui senza fare storie e nessuno si farà del male…».

E poi, quando è arrivato all’incrocio della Broadway con la Grant, pronto a scendere verso il brulichio di Chinatown, preso da pensieri foschi che riguardano i tre Citpol raggruppati davanti a un fruttivendolo orientale di là dalla strada, qualcuno gli lancia un grido dall’altra parte della Broadway: — Mordecai? Ehi, Shadrach Mordecai!

Al suono del proprio nome Shadrach si immobilizza, impalato nel mezzo del suo fantasticare, conscio che il gioco si è concluso, che il momento temuto è quasi giunto.

Ma l’uomo che lo sta avvicinando, muovendosi attraverso il traffico in modo goffo e strascicato, barcollando, non è un Citpol. È un uomo corpulento, dai capelli radi, con una faccia stanca e segnata e una barba trascurata venata di grigio; indossa una salopette verde consunta, una camicia pesante a disegno scozzese, un mantello rosso sbiadito. Raggiunto Shadrach, gli mette la mano sull’avambraccio in un modo che sembra richiedere sostegno fisico oltre che attenzione, e spinge la faccia vicino a quella di Shadrach, arrogandosi intimità in modo così sfacciato che Shadrach non oppone resistenza al gesto. Gli occhi dell’uomo sono acquosi e gonfi: uno dei sintomi della decomposizione organica. Ma è ancora in grado di sorridere. — Dottore — dice. La sua voce è calda, vellutata, insinuante. — Ehi, dottore, come va?

Un ubriaco. Probabilmente innocuo, nonostante trasmetta un vago senso di minaccia.

— Non sapevo di essere una tale celebrità da queste parti.

— Celebrità. Celebrità. Mmm, cazzo se sei famoso! Almeno per me, sei famoso. Ti ho notato fin da laggiù, attraverso tutta la Broadway. Non che tu sia cambiato tanto. — Quest’uomo è sicuramente ubriaco. Ha quell’affettuosità pesante, eccessivamente accattivante; è praticamente aggrappato al braccio di Shadrach. — Non mi riconosci, eh?

— Dovrei?

— Dipende. Ci conoscevamo piuttosto bene, una volta.

Shadrach perlustra quel volto gozzuto e butterato. Vagamente familiare, ma non gli viene alla mente nessun nome. — Harvard — tira a indovinare. — Dev’essere stato a Harvard. Giusto?

— Due punti. Va’ avanti.

— Scuola di Medicina?

— Prova con l’università.

— Questo è più difficile. È più di quindici anni fa.

— Toglimeli, quindici anni. E una ventina di chili. E la barba. Cazzo, tu non sei cambiato per niente. Certo, fai una vita facile. So come ti sei sistemato. — L’uomo volteggia sui piedi e, senza lasciare la presa sul braccio di Shadrach, gli dà le spalle, tossisce, si raschia la gola, sputa. Catarro e sangue. Stringe i denti in un sorriso. — Un bel pezzo del mio fegato, lì, eh? Ne perdo un po’ ogni giorno. E tu non mi riconosci davvero. Che Cristo, noi ragazzi bianchi sembriamo tutti uguali.

— Qualche altro indizio?

— Uno grande. Eravamo nella squadra di atletica insieme.

— Getto del peso — dice Shadrach all’istante, sentendo il dato venirgli fuori da dio sa quale recesso del suo cervello, sicuro di non sbagliarsi.

— Due punti. Adesso il nome.

— Non ancora. Mi sto sforzando. — Shadrach trasforma questo relitto in un giovane, glabro, muscoloso là dove oggi è grasso, in maglietta e calzoncini sportivi; lo vede sollevare il globo di acciaio lucido, avvitarsi nella piccola, bizzarra danza del lanciatore del peso, fare il suo lancio…

— Il torneo dell’NCAA, Boston, millenovecentonovantacinque. Il nostro secondo anno. Tu hai vinto lo sprint sui sessanta metri. Sei secondi netti. Bravissimo. E io ho fatto ventun metri nel getto del peso. C’erano le nostre foto in tutti i giornali. Ti ricordi? Il primo grande torneo di atletica dopo la Guerra Virale, un segno che le cose stavano ritornando alla normalità. Ha! Normalità. Tu eri un corridore mostruoso, Shadrach. Scommetto che lo sei ancora. Cazzo, io non riuscirei neanche a sollevare il peso adesso. Come mi chiamo?

— Ehrenreich — dice immediatamente Shadrach. — Jim Ehrenreich.

— Sei punti! E tu sei il medico del capo adesso. Dicevi che avresti fatto qualcosa per l’umanità, che non entravi in medicina solo per far soldi, eh? E così hai fatto. Servire l’umanità, tenere in vita il nostro glorioso leader. Perché sei così sorpreso? Credi che nessuno conosca il nome del medico personale del Presidente?