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Shadrach discende nella hall dell’hotel per farsi fissare un posto sul primo volo per Ulan Bator. Ce n’è uno la sera stessa, lo informano, in partenza tra due ore e mezzo. Shadrach lascia la stanza che aveva appena preso. L’impiegato dell’albergo, un giovane cinese dall’aspetto sparuto che è incapace di nascondere l’incanto che suscita in lui il colore della pelle di Shadrach, lo fissa con delle occhiate di sottecchi semiclandestine, mentre fa qualche commento sulla brevità del soggiorno pechinese del suo ospite.

— Un cambiamento di piani — dichiara Shadrach con decisione. — Impegni urgenti. Devo tornare immediatamente.

Shadrach lancia un’occhiata attraverso la hall; è un salone profumato, illuminato debolmente, non dissimile dal vestibolo di un enorme ristorante cinese, ingombro di paraventi di mogano, di urne di porcellana e di enormi vasi laccati posti su piedistalli di palissandro. E, laggiù, tra due facchini che gli stanno ai fianchi, torreggia la figura imponente e sgraziata di Avogadro. Gli occhi dei due uomini si incontrano e Avogadro sorride, fa un cenno di saluto con la testa, agita una mano. È arrivato all’hotel in questo momento, a quanto pare. Shadrach è tutt’altro che sorpreso di incontrare qui il capo della Sicurezza. Era inevitabile, riflette, che Avogadro si facesse vivo per condurre a termine l’arresto personalmente.

Nessuno dei due fa commenti sulla coincidenza della loro presenza in questa località esotica. Avogadro chiede in tono amabile: — Come sono andati i suoi viaggi, dottore?

— Ho visto tante cose, in giro per il mondo. Estremamente interessante.

— È la parola più adatta che le viene in mente? Interessante? Non impressionante, illuminante, trascendentale?

— Interessante — ripete Shadrach in tono sicuro. — Un viaggio molto interessante. E come se la cava Gengis Mao in mia assenza?

— Non c’è male.

— È circondato da gente in gamba. A lui piace pensare che io sia indispensabile, ma il personale sostitutivo è più che in grado di gestire la maggior parte delle situazioni che possono presentarsi.

— È probabile.

— Ha avuto qualche mal di testa però, vero?

Avogadro sembra leggermente stupito. — Lo dice perché lo sa già, è così?

— Qui mi trovo appena al limite del raggio di teletrasmissione.

— E riesce a rilevare i suoi mal di testa?

— Riesco a ricevere i segnali relativi a certi fattori causali — dice Shadrach — e a dedurre un mal di testa a partire da quelli.

— Quel sistema è geniale. Lei e il Khan siete praticamente una persona sola, non è così? Collegati come siete. Qualcosa gli duole, e lei lo sente.

— L’ha espresso bene — dice Shadrach. — A dire il vero, era stata Nikki la prima a farmi quel discorso. Io e Gengis Mao siamo una sola persona, già, una singola unità di trattamento delle informazioni. Paragonabili allo scultore, al marmo e allo scalpello.

L’analogia non sembra impressionare Avogadro. Continua a sorridere, quel sorriso fisso e risolutamente affabile che non gli è andato via dalle labbra dal primo momento in cui si sono incontrati nella hall.

— Ma non abbastanza unita — prosegue Shadrach. — Il sistema potrebbe essere connesso in maniera ancora più stretta. Ho intenzione di parlare con gli ingegneri perché mettano a punto certe modifiche, quando sarò a Ulan Bator.

— Che succederà quando?

— Stanotte — gli dice Shadrach. — Ho un posto sul primo volo in partenza.

Le sopracciglia di Avogadro si inarcano. — Veramente? Ottimo. Mi risparmia il fastidio di…

— Chiedermi di tornare?

— Sì.

— Avevo il sospetto che lei potesse avere in mente qualcosa del genere.

— Il fatto è che Gengis Mao sente la sua mancanza. Mi ha mandato qui a parlare con lei.

— Naturalmente.

— A chiederle di tornare.

— L’ha mandata a chiedermelo. Non a portarmi a Ulan Bator, ma a chiedermelo. A chiedermi se mi andava di tornare. Liberamente.

— Sì. A chiederglielo.

Shadrach pensa ai Citpol che lo tallonano in ogni angolo del pianeta, ai Citpol che si accalcano, confabulano, passano bollettini ai loro colleghi in città lontane. Sa, ed è sicuro che Avogadro sa che lui sa, che la situazione reale non è rilassata come Avogadro vorrebbe fargli credere. Comprando quel biglietto per il volo della sera, ha risparmiato ad Avogadro l’imbarazzo di doverlo arrestare e portare a Ulan Bator con le cattive. Si augura che Avogadro gliene sia debitamente grato.

Chiede: — Sono forti i mal di testa del Khan?

— Piuttosto forti, mi dicono.

— Lei non l’ha visto?

Avogadro scuote la testa. — Solo sentito al telefono. Aveva l’aria tesa. Stanca.

— Quanto tempo fa?

— Due notti fa. Ma è dall’inizio della settimana che nella torre si parla dei mal di testa del Presidente.

— Capisco — dice Shadrach. — Mi aspettavo qualcosa del genere. È per questo che ho deciso di tornare a casa in anticipo. — Posa gli occhi su quelli di Avogadro. — Di questo lei si rende conto, non è vero? Che ho comprato il mio biglietto di ritorno non appena mi sono accorto che il Khan non stava bene? Perché faceva parte della mia responsabilità di fronte al mio paziente. La mia responsabilità di fronte al mio paziente è sempre il fattore decisivo che dirige le mie azioni. Sempre. Sempre. Lei questo lo sa, vero?

— Naturalmente — dice Avogadro.

23 giugno 2012

E se morissi prima di aver portato a termine la mia opera? Tutt’altro che una domanda oziosa. Io sono importante per la storia. Sono uno dei grandi uomini che hanno tenuto insieme la società. Toglietemi dalla scena nel 1995, nel 1998, anche più avanti, nel 2001, e tutto diventa caos. Sono per questa società quel che Augusto è stato per il mondo romano, quel che Ch’in Shih Huang Ti è stato per la Cina. Che razza di mondo esisterebbe adesso se io fossi morto dieci anni fa? Mille principati in guerra tra loro, senza dubbio, ciascuno con il suo patetico esercito, i suoi legislatori, valuta, passaporti, guardie di frontiera, dazi doganali. Un’accozzaglia di meschine aristocrazie, un accalcarsi di gravose imposizioni feudali, cabale segrete di scontenti, piccole rivoluzioni senza sosta. … il caos, il caos, il caos. Nuovi scoppi di guerra virologica, con ogni probabilità. E alla fine di tutto, l’estinzione del genere umano. Tutto questo se si toglie di mezzo Gengis Mao nel momento storico critico. Sono il salvatore del mondo.

Suona oscenamente presuntuoso. Salvatore del mondo! Eroe della civiltà, figura-mito, io, Krishna, io, Quetzalcoatl, io, Artù, io, Gengis Mao. Eppure è vero, è più vero nel mio caso che in quello di tutti loro, perché senza di me oggi l’umanità intera potrebbe essere morta, e questo è un fatto nuovo nella storia dei miti messianici. Porre termine al conflitto, far smettere l’utilizzo del virus, sostenere il lavoro di Roncevic… certo, non c’è dubbio, questo potrebbe essere un pianeta morto se io fossi sparito in una tomba dieci anni fa. La storia lo riconoscerà. E però, però… che importanza ha? Non mi dimenticheranno quando morirò; non mi dimenticheranno mai. Ma morirò. Prima o poi i miei sotterfugi si esauriranno. Né Talos, né Fenice, né Avatar riusciranno a sostenermi in eterno. Qualcosa andrà storto, oppure la noia mi vincerà e sarò io stesso a fermare il funzionamento dei sistemi vitali, e morirò, e a quel punto che significato avrà aver salvato il mondo? In ultima analisi, quel che ho fatto è privo di senso per me. In ultima analisi, il potere che ho raggiunto è vuoto. Non è vuoto nell’immediato: me ne sto qui seduto, giusto? In mezzo allo splendore e alle comodità. Ma è vuoto in fine dei conti. Faccio finta che ci sia un senso nel potere imperiale, ma non ce n’è, nessun senso, da nessuna parte. Questa è una filosofia diffusa tra chi è molto giovane e, immagino, tra chi è molto vecchio. Io devo fingere che il potere abbia importanza per me. Devo fingere che la resa dei conti costituita dalla storia sia la consolazione che tutto consola. Ma sono troppo vecchio perché me ne importi davvero. Mi sono dimenticato il motivo per cui avesse importanza, a suo tempo, fare quello che ho fatto. Sto facendo le ultime mosse di un gioco stupido, non ho voglia di lasciare che arrivi a una conclusione ma non sono sicuro della natura della mossa vìncente. E così vado avanti, avanti, avanti. Io, Gengis II Mao IV Khan, salvatore del mondo, impegnato a nascondere agli occhi di chi mi circonda la vacuità profonda e paralizzante che sta dietro gli estremi recessi del mio spirito. Temo di aver perso il filo. Sono stanco. Sono annoiato. Mi fa male la testa.