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— I tuoi figli regneranno su mezzo mondo.

— Mezzo mondo — dice con calma Gengis Khan. — Solo mezzo? È la verità questa, vecchio?

— Il Catai sarà loro…

— Il Catai è già mio.

— Sì, ma loro l’avranno tutto, giù fino alle giungle torride. E regneranno sulle alte montagne, sulla terra russa, e sul Turkestan, l’Afganistan, la Persia, tutto quel che si stende fino alle porte dell’Europa. Mezzo mondo, padre Gengis!

Il Khan dei Khan grugnisce.

— E ti dico anche questo. A novecento anni da oggi, un khan chiamato Gengis regnerà su tutto quel che vi è da mare a mare, da riva a riva, e tutte le anime di questo mondo lo chiameranno signore.

— Un khan del mio sangue?

— Un vero tataro — lo rassicuro.

Gengis Khan rimane in silenzio per un lungo momento. È impossibile leggergli negli occhi. È più basso di quanto mi aspettassi, e il suo odore è cattivo, ma è un uomo di tale forza e decisione che io mi sento umiliato, perché credevo di essere della sua razza, e in un certo modo lo sono, ma lui è più di quel che io avrei mai potuto essere. Non è un uomo che calcola: è assolutamente monolitico, privo di esitazioni, un uomo che vive momento per momento, un uomo che non si deve mai essere fermato a ripensare a qualcosa una seconda volta, e che quando ha pensato a qualcosa la prima volta non si deve mai essere sbagliato. Non è che un principe barbaro, un semplice cavaliere selvaggio del Gobi, per il quale ogni aspetto della mia vita di tutti i giorni sembrerebbe magia della più incomprensibile: ma portatelo a Ulan Bator, e riuscirebbe a capire il funzionamento del Vettore di Sorveglianza Uno in tre ore. È un barbaro, sì, ma non un semplice barbaro, non è niente di semplice; e sebbene io gli sia superiore per certi versi, sebbene la mia vita e il mio potere siano al di là della sua comprensione, io gli sono secondo in tutte le cose che importano davvero. Mi ispira soggezione. Come mi aspettavo che facesse. E, vedendolo, mi avvicino a un desiderio di rinunciare a tutto il potere che ho sugli uomini, perché, di fronte a lui, non ne sono degno. Non ne sono degno.

— Novecento anni — dice finalmente, e l’ombra di un sorriso gli solca la faccia. — Bene. Bene. — Batte le mani per chiamare un servitore. — Dell’altro airag — ordina. Beviamo insieme ancora una volta. Poi dice che per lui è tempo di andare; è tempo di lasciare Karakorum, per andare all’accampamento di suo figlio Chagadai, dove la famiglia reale farà un torneo quest’oggi. Non mi invita ad accompagnarlo. Non prova interesse per me, sebbene io me ne venga dal regno dei tempi più lontani, sebbene gli rechi racconti gloriosi di imperi mongoli che verranno. Non ho importanza per lui. Gli ho detto tutto quel che gli importava sapere: ora sono stato dimenticato. Solo il torneo ha importanza, adesso. Balza sulla sua giumenta; cavalca via, seguito dai guerrieri della sua corte, e qui rimaniamo solo io e il suo servitore.

24

Due chierici togati portano Roger Buckmaster da Shadrach, là nelle profondità della tenda dei transtemporalisti a Karakorum. Anche Buckmaster ha un abito particolare, ma non è il costume grezzo, ruvido, nero dei transtemporalisti. Porta una tunica di densa lana bruna, con un cappuccio pesante, di buon filato liscio. I piedi nudi sono fasciati da sandali aperti. Un pendente a forma di croce gli dondola sotto la gola. Ritrae il cappuccio, e la testa scoperta rivela una chierica.

Buckmaster è diventato una specie di monaco.

Il suo nuovo abito da asceta non è il solo cambiamento in lui. Prima era un uomo iroso, impaziente, brusco, con una sorta di energia furiosa e risentita che circolava dentro di lui senza mai trovare una via di sfogo. Ora è calmo in modo inquietante, controllato, un uomo che abita un impenetrabile regno di solitudine e di pace. È pallido, molto magro, quasi spettrale. Resta muto, in piedi davanti a Shadrach; fa scorrere tra le dita le perle di una collana da preghiera, ma per il resto è assolutamente immobile, in attesa, in attesa.

Shadrach dice infine: — Non mi sarei mai aspettato di rivederti vivo.

— La vita porta molte sorprese, dottor Mordecai. — Anche la voce di Buckmaster è cambiata, più profonda, sepolcrale, più risonante; tutto il barbugliamento e la concitazione sono spariti, bruciati.

— Si diceva che fossi stato mandato al vivaio d’organi. Sezionato, smembrato.

Buckmaster dice, pio: — Il Signore ha scelto di risparmiarmi.

La devozione di Buckmaster è indigesta a Shadrach. — I tuoi amici ti hanno salvato la pelle, vorrai dire — ribatte, pentendosi all’istante per il tono che ha usato. Non è il modo più saggio per rivolgersi a una persona di cui ti serve l’aiuto.

Ma Buckmaster non sembra offeso.

— I miei amici sono i Suoi agenti. Come lo siamo tutti, dottor Mordecai.

— Sei stato sempre qui?

— Sì. Dal giorno in cui mi ha visto sotto interrogatorio.

— E i Citpol non sono venuti ad annusare in giro alla tua ricerca?

— Io sono ufficialmente morto, dottore. Il mio corpo è stato ufficialmente distribuito a membri del governo che avevano dei problemi di salute: il computer le dirà questo. I Citpol non ricercano i morti. Per loro non sono altro che una serie di parti sparse… un pancreas qui, un fegato lì, un rene, un polmone. Dimenticato. — Per un attimo lampeggia uno sguardo malizioso sul volto stranamente solenne di Buckmaster. — Se lei dicesse loro che mi trovo qui, loro la contraddirebbero.

— E cos’hai fatto da quando sei qui?

— I transtemporalisti mi considerano un sant’uomo. Prendo la loro bevanda tutti i giorni. Ogni giorno ripercorro i giorni della vita del nostro Signore. Sono stato presente alla Sua Passione sul Calvario molte volte, dottore. Ho camminato fra gli apostoli. Ho toccato il lembo della tunica di Maria. Ho assistito ai miracoli: Cana, Cafarnao, Lazzaro risvegliato a Bethania. Ho visto il tradimento nel Getsemani. Ho visto che Lo portavano da Pilato. Ho visto tutto, dottor Mordecai, tutto ciò di cui narrano i Vangeli. È tutto vero. È letteralmente la verità. I miei occhi ne sono testimoni.

L’intensità inattesa della convinzione negli occhi di Buckmaster, il suono ultraterreno della voce di Buckmaster, lasciano Shadrach senza parole per qualche istante. È impossibile non credere che quest’ometto trasandato se ne sia stato a passeggio per la Galilea con Gesù e Pietro e Giacomo, che abbia ascoltato i sermoni di Giovanni Battista e le lamentazioni della Maddalena. Illusione, allucinazione, autoinganno, frode: non importa. Buckmaster è trasformato. È raggiante.

Brusco in modo deliberato, Shadrach chiede: — Sei sempre in grado di fare lavori di microingegneria?

Una domanda così irrilevante prende Buckmaster di sorpresa. È perso in fantasticherie sacre, avvolto di serenità mistica e gioia trascendentale, e le parole di Shadrach lo fanno sussultare di stupore, come se avesse ricevuto una stoccata fra le costole. Tossisce e aggrotta la fronte e dice, manifestamente perplesso: — Immagino che ne sarei capace. Non mi è mai passato per la testa.

— Ho del lavoro per te, adesso.

— Non sia sciocco, dottore.

— Sono assolutamente serio. Sono venuto da te perché c’è un lavoro che tu, e tu soltanto, puoi fare bene. Tu sei l’unico a cui potrei affidare questo lavoro.

— Il mondo mi ha espulso, dottore. Io ho espulso il mondo. Questa è la mia casa. Le cure del mondo non sono più le mie.

— Una volta ti curavi delle ingiustizie perpetrate da Gengis Mao e dal CRP.

— Ora sono al di là di giustizia e ingiustizia.